giovedì 10 giugno 2010

Zio Nets (testo completo)

                                                                        
ALBERICO LUPI


                                               Zio Nets



A Veronica,
Unico gioiello della mia vita,
per la quale dannerei l’anima
affinché Nulla e Nessuno
me le portasse mai via.


Un ringraziamento speciale
a colui che mi ha permesso
di realizzare il sogno.



                                                                    PROLOGO


"All'improvviso lei aprì il cofanetto e le palline della lunga vita rotolarono giù per il pavimento fino al cortile, l'una accanto all'altra, con moto uniforme, emettendo quei suoni cristallini che la magia cinese aveva donato loro.

Quel tintinnio leggero richiamò l'attenzione dei miei sensi che, estrapolando quella melodia polifonica, mi riportarono alla cruda realtà dalla quale ero fuggito da troppo tempo facendomi carpire nei suoni la similitudine del colore ma la diversità dell'impasto. Essi si spandevano insieme tutt'intorno, compatti, sorreggendosi l'uno contro l'altro, in un continuo e reciproco richiamo, ma ciascuno fiero della propria ed irriproducibile diversità".


                                                            F L A S H B A C K S
                                                             Immagini del passato
                                                                          0
Il vento tra i suoi capelli bianchi, adagiati al suolo, rubava l'ultimo sospiro e lo lasciava riposare sotto i raggi del sole. La posizione fetale che il vecchio aveva assunto, dava l'impressione che stesse dormendo un lungo sonno primordiale ed i suoi occhi chiusi facevano pensare stesse sognando. A pochi passi dal suo scomodo letto di asfalto vi era una bicicletta stesa per terra; ammaccata. E tanta, tantissima gente attorno a guardare, a mormorare... a presenziare in religioso silenzio. Come noi.

“Circolare! avanti... circolare!”

A quell'urlo mi risvegliai improvvisamente dall'incantesimo del vedere la morte così da vicino.

Un poliziotto sventolava innervosito una paletta al nostro procedere a rilento mentre guardavamo, in silenzio e col cuore in gola.

Al suo segno di proseguire ci allontanammo da quel luogo affollato.

Gli angeli erano lì. Gli accarezzavano i capelli... gli raccontavano già del viaggio che aveva intrapreso.





























1









Ricordo ancora quell'estate soffocante di qualche anno fa quando, tra una crisi ed un'altra avvennero dei fatti che cambiarono la mia vita. Dopo un lungo girovagare per tre continenti a causa dei trasferimenti di lavoro di mio padre, mi ritrovavo finalmente a Ravenna per una mia scelta. Ma le cose non andavano per il verso giusto e mi sentivo frustrato della vita che conducevo per svariati motivi: il mio lavoro, il rapporto conflittuale col figlio di prime nozze a Roma, ed il mio secondo matrimonio.



Un giorno, rimasto solo in casa, mi ero sistemato in un angolino del salotto, e seduto per terra a piedi scalzi, assaporavo la freschezza del marmo stando in mezzo alla corrente di aria che si era creata avendo spalancato le finestre della cucina, del salotto e della porta che davano al cortile interno.

Mi ero fatto prestare da mia madre l’album di fotografie di quando ero bambino e sfogliavo le pagine osservando attentamente i visi delle persone care e degli amici; i paesaggi dei luoghi vissuti durante la mia infanzia; le varie ricorrenze passate assieme alla mia famiglia...

Sentivo rivivere magicamente dentro di me un mondo di sole e caldo afoso, inondato da stridenti urla di cicale ed uccelli tropicali negli assolati pomeriggi estivi, che erano rimasti assopiti a lungo nei miei ricordi.



La mia infanzia in Argentina, dove ero nato essendo i miei genitori emigrati nel dopo guerra, era stata particolarmente piacevole, e lo testimoniavano le numerose fotografie riproducenti i tempi felici e i luoghi ameni.

Dopo due anni dall’essermi trasferito a New York per seguire mio padre, avevo ritrovato il mio paese cambiato: pesavano l’incertezza economica e la tensione politica. Il tenore di vita era peggiorato notevolmente e la gente si accorgeva che il futuro non sarebbe stato roseo.

Ero vissuto durante la transizione tra il regime militare di destra che aveva mandato in esilio Peròn e gli albori della guerra civile del ‘72, prima ancora del suo ritorno.

Eravamo tutti ignari delle atrocità che si sarebbero commesse ma si respirava nell’aria qualcosa di diverso che presagiva la tragedia.

Fino allora avevo vissuto un’infanzia agiata da borghese, crescendo con le idee conservatrici di mio padre e odiando il “Peronismo”. Ero stato chiaramente indottrinato, e me ne sarei reso conto crescendo, ma allora ero convinto che una delle principali cause della rovina economica in cui era piombato il mio paese, fosse dipesa dalla sottrazione di tutto l’oro requisito ai nazisti (in cambio di asilo clandestino nel dopo guerra) dalle casse dello Stato da parte dello stesso Peròn prima del suo esilio nel 1955. Solo da grande riuscii a capire che era stata l’inettitudine dei militari a far crollare l’economia e far galoppare l’inflazione.

Il permanere dell'instabilità politica contribuiva ad aggravare la crisi economica e alla fine del 1972, in attesa che le successive elezioni insediassero nuovamente Peròn al potere, aveva portato l’Argentina ad un periodo di violenti disordini che avrebbero favorito un nuovo colpo di Stato militare nel 1976.

Il giorno della sua morte, nel 1974, mi trovavo ospite di Juan Bautista per un mio “rimpatrio” dopo le prime esperienze americane, per rinnovare il Passaporto. Ero fiero di poter rivedere i vecchi compagni di scuola per raccontar loro le mie impressioni ed esperienze fatte negli Stati Uniti.

Mi furono fatte mille domande:

“Entonces, como se vive en los Estados Unidos?

Y la droga...?

dicen que la marijuana la fumen todos...

Me contàs como son las chicas...?

Son todas putas?...”

In quel periodo volevo tornare a vivere nella mia Patria poiché soffrivo moltissimo la mancanza dei miei amici, il non capire la lingua e le abitudini del paese che mi ospitava. Ma con quel rimpatrio, una esperienza singolare mi fece cambiare idea: la guerra civile si era ormai innescata. Moltissime persone erano minacciate dagli Erpisti ( E.R.P.: Ejercito Revolucionario del Pueblo) che erano assieme ai Tupamaros ed ai Montoneros le falangi di estrema sinistra paragonabili in un certo modo alle Brigate Rosse. Ogni giorno vi era un rapimento, una bomba che faceva una strage; spesso ritrovavano gente assassinata. Le lettere e telefonate minatorie erano divenute una prassi quotidiana tanto che toccarono persino al padre di un mio compagno di scuola. Era un dirigente di una importante società italiana e fu anch’egli preso di mira attraverso minacce di morte.

Lo avevo cercato per salutarlo e mi avevano risposto che non abitava più lì. Ma la stessa sera mi richiamò in albergo ed il nostro incontro avvenne in modo clandestino.

“Mi dispiace Alberico... ma la mia famiglia ha avuto dei grossissimi problemi e non potevo dirti dov'ero.” mi disse incontrandomi all'angolo di Calle Corrientes e Florida. Era il punto più centrale e nevralgico di Buenos Aires . Ma non quella sera. Le strade erano praticamente deserte... Si trattava di una zona della città che cominciava a vivere intensamente sin dalle otto di sera fino alle tre del mattino. Quella volta, invece solo qualche frettoloso, cupo passante, e noi che parlavamo... dopo tanto tempo.

Ad un tratto facemmo un “dietrofront” pericolosissimo. Avevamo visto in lontananza dei militari e poliziotti che minacciavano con i mitra e fucili cinque uomini. Questi ultimi appoggiavano le mani contro un muro con le gambe divaricate. Fu soltanto dopo aver girato i tacchi che si sentirono delle urla... poi degli spari. Cominciammo a correre fino a quando le gambe ci ressero e, col cuore in gola e una fottuta paura, che mi faceva tremare, pensai terrorizzato a ciò che era accaduto.

Vigeva la legge marziale e avevamo rischiato anche noi di essere fermati e poi processati per atteggiamenti sospetti.

Guido mi illustrò allora la situazione di drammaticità nella quale versava il Paese.

Furono giorni di fuoco. In occasione di un incontro con un amico di mio padre, che lavorava nella Polizia Segreta , mi fu consigliato di evitare riunioni o di partecipare a feste nelle quali non avessi saputo chi ci sarebbe stato. Anche gli “amici” potevano essere coinvolti in atti di terrorismo, ed io, non saperlo.

“La gente” mi disse, “està desapareciendo... No se sabe nada, pero tené cuidado!... A las ocho... a casa!”



Me ne andai via di corsa, con un pessimo ricordo ed una grande paura. Tornai in America con l’angoscia di aver rivisto la mia città cambiata. Forse, l'incantesimo si era spezzato definitivamente.

Ero rimasto senza Patria e la nuova destinazione non mi piaceva. La mia infanzia, era svanita ad un tratto... Quell’infanzia che fino ai quindici anni avevo trascorso felicemente e con spensieratezza.



Fino allora, avevo frequentato la scuola italiana di Buenos Aires, completando la terza media e pensando principalmente solo a due cose: inseguire le compagnette di scuola, innamorandomi di una diversa, al trascorrere di ogni settimana, e giocare con Juan Bautista: il mio più grande amico.



Mentre guardavo l’album, affioravano nella mia mente le numerose giornate passate a studiare a casa sua, dove, dopo aver fatto frettolosamente i compiti, facevamo merenda col tè al limone e biscotti, come si usava in ogni “buona famiglia”, seguendo la tradizione di origine inglese.

Rivedevo attraverso quelle fotografie le caotiche strade della mia città, solcate dagli autobus di una volta: i "colectivos", che erano addobbati con mille ghirlande della squadra favorita di calcio, statuette di Santi e Madonnine. Bisognava prenderli di corsa salendo al volo, in quanto alle fermate, spesso rallentavano e basta. Poi, una volta montati sopra dal retro, ci si doveva avvicinare all’autista, aggrappandosi agli scorrimano fissi sul soffitto, reggendosi saldamente agli schienali delle sedie quando virava in corsa, per acquistare i biglietti che si trovavano arrotolati per serie differenziate, da disegni e colori a seconda delle diverse destinazioni.

Questi ricordi appannati e lontani sembravano riprendere forma e vita, via via che sfogliavo l’album assorbendomi i pensieri.

§











Erano passati ormai più di vent’anni da quando avevo lasciato il mio paese e la mia memoria aveva dimenticato tante cose. Quelle fotografie furono un “flashback” improvviso : il clima, ad esempio era uno dei peggiori . La parola “buenos aires” era stata affibbiata alla città dai primi coloni spagnoli, ma a dispetto del suo significato, ai malati di polmoni e di tubercolosi era sconsigliato viverci a causa della forte umidità ambientale. In estate, arrivava a livelli altissimi stanziandosi persino al novanta per cento, mentre in inverno, sebbene la temperatura raramente scendesse sotto lo zero, faceva penetrare il freddo nelle ossa.

D’estate, l'afa era insopportabile fintanto che non arrivava la stagione dei temporali ed allora si scatenava un putiferio che avevo soltanto rivisto qui in Romagna ultimamente, in occasione di una tromba d'aria.

Ricordai le abbondanti giornate di pioggia. Erano buie da morire, l'aria era fresca e gli scroscioni duravano pochissimo ma erano di una intensità fortissima. Da piccolo, quando ero spesso malato e restavo a casa, trascorrevo il tempo a guardare, attraverso i vetri bagnati della finestra, i goccioloni rimbalzare sul marciapiede di mattonelle e sui lastroni di cemento delle strade. Erano scagliati con tale forza che creavano una fitta nebbiolina tutt’intorno.

L'acqua si concentrava, formando dei torrenti che venivano ingoiati dalle fognature creando dei veri e propri mulinelli, e nel cielo non volava neanche un uccello. I loro canti venivano ammutoliti improvvisamente dai tuoni e dai lampi che si accavallavano in uno strepitìo incessante. La luce spesso andava via e si rimaneva al buio per ore intere; talvolta anche per giorni. Le foglie dei platani, sul marciapiede davanti a casa mia, crescevano durante il periodo delle piogge torrenziali a vista d'occhio, e mai nella mia vita più di allora, potetti osservare il dirompente risveglio della natura.

Chi non ha vissuto in un clima tropicale, non può comprendere quale spettacolo e quale atmosfera si respiri in quei frangenti.

Poi, arrivava il vento del Sud. Forte. Freddo; dalla Patagonia. Spazzava via tutte le nubi e l’afa spariva. L’aria diveniva tersa, ossigenata. Finalmente il tempo si ricomponeva, diventando piacevole e fresco. L'epoca delle grandi piogge scompariva e si proseguiva con temperature più basse fino a ripiombare nel cupo e grigio autunno e verso il freddo.

Ricordai nitidamente quando all’età di cinque anni mia madre svegliava me e mia sorella che era ancora buio. Ci riscaldavamo davanti ad una stufetta a gas semi addormentati mentre ci vestiva; poi, una colazione veloce e via a scuola! Passava a prenderci l'autobus scarcassato di color giallo ocra che ancora albeggiava. L’aria aveva il profumo della terra e del grano marcescente e spesso anche in autunno e durante l’inverno, si scatenavano temporali. Mi parve di respirare nuovamente quell'ossigeno intriso d’acqua mentre i lampi erano susseguiti dai brontolii dei tuoni. L’aria era buia, ed io appoggiavo la testa sulle braccia conserte sopra il banco di scuola sonnecchiando prima dell' arrivo della maestra.

Ricordai il mio primo amore: Marina; le prime emozioni.

Rimpiansi quelle giornate spensierate che comunque avevo spesso trascorso piangendo come tutti i fanciulli, poiché i problemi della giovinezza, essendo i primi, erano fatalmente importanti e sembravano insormontabili.

All’asilo avevo conosciuto Juan Bautista col quale avevo mantenuto la mia amicizia nonostante la mia partenza e la distanza.

Era di famiglia agiata, ed inserita nell'alta borghesia italiana di Buenos Aires. Avevamo frequentato le scuole insieme nella stessa classe e ci eravamo ritrovati spesso fianco a fianco nello stesso banco.

Una volta, già da grandi, quasi finite le medie, andai nella sua Estancia in Entre Rios. Era una tenuta di oltre diecimila ettari di terra con più di duemila capi di bestiame ed una trentina di cavalli sellati oltre ad un ammontare imprecisato allo stato brado.

Il viaggio era stato incredibilmente entusiasmante in un aeroplano a sei posti di proprietà di suo padre. Non avevo mai sentito un vuoto d'aria né tantomeno avevo viaggiato (nonostante i miei numerosi voli) a non più di 200/300 metri d'altezza. Era stato meraviglioso vedere le case, le automobili, le mucche e i cavalli così da vicino... Poter seguire con lo sguardo il percorso dei fiumi e dei laghi; sorvolare il grande fiume Paranà e vederne l'incrocio col fiume Uruguay dove si iniziava a chiamare Rio de la Plata! Tutto marrone, era solo una massa fangosa che proveniva dalle provincie chiamate “Mesopotamia”, di cui Entre Rios faceva parte, chiamate così proprio perché intrappolate tra due fiumi, al confine col Paraguay ed il Brasile. Poco distante da lì avevo scorto l'Uruguay e la famosa città marittima di Punta del Este, dove Juan Bautista villeggiava durante le vacanze. Superammo le acque melmose e torbide in pochi minuti ed arrivammo ad Entre Rios. Cominciò la discesa. Atterrammo e ci incamminammo con delle jeeps dell'epoca di Eisenhower verso l'interno. Il viaggio durò più di due ore.

Il paesaggio era selvaggio. La casa colonica, inserita nel mezzo di un bosco di eucalipti era costruita in fango cotto. Le arcate, ove poggiava un tetto a spiovere di tegole rosse, coprivano la veranda dove si legavano i cavalli. Poi seguiva un "patio"(cortile) in sanpietrini con un pozzo artesiano al centro. Attraversandolo si arrivava alla casa e si entrava in una grande sala da pranzo che era di fianco alla cucina. Ci attendevano e già si sentiva un buon profumo di ragù mischiato al fumo della brace che era pronta per "el asado" (braciolata). Oltre alla sala si passava alle camere da letto ed infine ai bagni. Tutta la casa era ad un piano e contava all'incirca cinquecento metri quadrati, escluso il cortile. Ad una certa distanza si trovavano le stalle per i cavalli, per qualche mucca da latte o animale partoriente, e a pochi passi giacevano alcuni covoni di grano coperto da teli di plastica sporchi di terra ed arsi dal sole.

Tutt'intorno vi era il grigiore intenso del cielo turbolento; gli eucalipti erano ingialliti e gli altri alberi ad alto fusto iniziavano a perdere le foglie ; per terra fango, erbacce e cespugli di ogni genere.

Folate di vento fresco ed umido sferzavano il viso preannunciando il maltempo. La calura stava finendo e nonostante lì fossimo più vicini al Brasile, verso sera ci dovemmo coprire con delle coperte di lana per non sentirsi intirizziti dal freddo.

Appena arrivati, cavalcammo per otto ore di seguito. Juan Bautista adorava i cavalli e grazie a quella volta, persi la paura. La “yegua” (cavalla) che mi fu assegnata, inseguì il gruppo al galoppo tra arbusti spinosi ed alberi coi rami ad altezza d'uomo ed io dovetti tenere il mio corpo chino, appiattito sul suo dorso, per evitare di essere colpito.

La cena fu solo un pro-forma. Eravamo talmente stanchi che non avevamo neanche fame. Bevemmo il "mate", un tè fortissimo, nel suo tipico contenitore di legno laccato nero con la cannuccia d'argento, uno ad uno, sorseggiando e passandolo al prossimo come un calumet della pace. Il mate aveva degli effetti eccitanti ma nonostante ciò andammo tutti a dormire.

L'indomani avevamo le schiene e le gambe rigide come delle assi di legno. Io non mi potevo muovere, ma nonostante ciò cavalcammo qualche ora anche quel giorno. A sera, ci dissero che i mandriani avevano ucciso un puma che insidiava il bestiame ed avendo trovato due cuccioli di latte nelle vicinanze li avevano adottati. Il fine settimana finì e facemmo ritorno alla civiltà.

I cuccioli furono portati con noi a Buenos Aires e sistemati nel giardino di Juan Bautista ma purtroppo non durarono a lungo. Li vedemmo spengersi pian pianino. La mancanza del latte materno fu fatale per loro. Dimagrirono velocemente e diventarono apatici. Vidi la sofferenza di Juan Bautista nel carpire giorno dietro giorno la loro agonia e aggiungemmo un doloroso tassello alla nostra conoscenza di ciò che era il senso del destino e della morte. Parlammo a lungo di questo fatto e ci sentimmo entrambi impotenti.



A Juan Bautista mi legava una forte amicizia. Oltre ad aver trascorso insieme tutti gli anni della nostra infanzia, eravamo molto simili nel carattere; provenivamo da famiglie colte e benestanti; eravamo entrambi oriundi argentini di prima generazione, il ché ci distingueva dalla maggior parte degli altri ragazzi di origini argentine, e avevamo gli stessi interessi; ma soprattutto eravamo i migliori della nostra classe. Ciò ci faceva sentire “diversi” e ci univa segretamente.

Parlavamo a lungo delle nostre idee, dei nostri problemi e spesso dei nostri sogni. Ci raccontavamo per filo e per segno le nostre esperienze e crescendo ci consigliammo sempre a vicenda. Non sapevamo cosa ci avrebbe riservato il destino, ma allora non avremmo mai potuto immaginare di non rivederci quasi più.













































2









Durante gli anni trascorsi in Argentina, spesso andavo a trovare i miei nonni materni nella loro casetta a “Capilla del Monte”, a Còrdoba. Circondata da un paesaggio pre-andino, era piccola ma funzionale; si entrava direttamente nel salotto e a sinistra vi era un tavolo da pranzo in legno chiaro e massiccio; le poltrone erano foderate in stoffa bordò e ricoperte con una plastica protettiva trasparente. Sulla parete di fronte all'entrata vi era un grosso quadro con un paesaggio alberato, una casa in riva ad un lago ed un cielo cosparso di nuvoloni minacciosi portatori di tempesta. I colori erano cupi ma vivaci al contempo.

Mio nonno era un artista. Aveva la cosiddetta "vena" e tutti i quadri in quella casetta erano dipinti da lui. Era un autodidatta ma le sue tele erano suggestive nonostante mai nessuno gli avesse insegnato la tecnica di dipingere. Mi dicevano sempre che avevo preso questa caratteristica da lui e ciò mi incoraggiava ad impastare i colori e metterli giù sulla tela che lui amorosamente mi preparava ogni volta che poteva.

Salivamo spesso sul terrazzo dove egli aveva costruito un ripostiglio a mo’ di casetta, tutta in legno, che serviva per gli attrezzi, per il cavalletto, le tele ed i colori. Ricordo che questi non erano in tubetti bensì in polverine e qualche volta me li faceva mischiare con degli oli speciali (per lo più di lino) prima di dipingere.

Grazie al suo talento amai i colori ed imparai da lui soprattutto a liberarmi dalle angosce attraverso la pittura come un vulcano in eruzione ed a raggiungere attraverso la forza esplosiva dei propri sogni la serenità dello spirito necessaria per la sopravvivenza.

In quei momenti entravo in un altra dimensione e mi sentivo creativo.

Gli volevo molto bene, e da quando, tornati in Italia, era in una casa di soggiorno per anziani, per colpa di alcune incomprensioni con mia madre, sentivo la sua mancanza. Spesso parlavamo di politica, di arte ed astronomia; la sua cultura mi affascinava. Sapeva prendermi ed era molto affezionato a me.

Era ormai anziano quando scoprimmo che aveva un brutto male. Perse a poco a poco l'equilibrio, la memoria. La lucidità mentale diminuì notevolmente e la forza fisica lo abbandonò molto rapidamente all'aggravarsi della malattia.



§



Purtroppo arrivò il momento della sua dipartita. Quel giorno, che tanto avrei voluto dimenticare, rantolava ed i suoi occhi erano chiusi, come se dormisse; ma in realtà era già caduto in coma. La vita gli sfuggiva e io non facevo altro che tenergli la mano, sempre più gelida, pregando per lui. Le metastasi avevano invaso i polmoni: la sua ora era arrivata.

Rivedevo i suoi quadri, i suoi colori. Quelle nuvole torbide, pregnanti di pioggia.

Soffiava il vento e gli alberi si scuotevano facendo tintinnare le foglie.

Il rantolo era sempre più forte; intervallato da colpi di tosse che scuotevano il suo corpo facendolo vibrare come se volesse ribellarsi alla morte. No, non voleva lasciarci. Aveva ancora tante cose da raccontarci... voleva ancora vedere il sorriso dei suoi cari intorno al suo letto. Ma il respiro era sempre più difficoltoso e le speranze di una sua ripresa, sempre più lontane.

Mi ero convinto che era giunta la sua fine e pregai Dio di prenderlo con se, subito... senza farlo soffrire, e mentre pregavo, mi chiesi quanto fosse incoerente chiedere di farlo morire, seppur misericordiosamente; se fosse giusto evitargli le medicine, ormai elisir di prolungata agonia, quasi a decretare la sua inevitabile fine. Mia nonna si disperava. Avevano vissuto in eterna armonia sin da quando lei aveva sedici anni. Avevano superato le nozze di diamante, ma adesso si dovevano separare.

Mi avevano sempre dato l'immagine di due perenni innamorati. Si prendevano a braccetto e andavano in giro a passeggio, si davano teneri baci e si tenevano sempre per mano quando guardavano la televisione la sera sul divano... e ora, il nonno la lasciava.



L'ultimo respiro arrivò verso le dieci di sera. Fu più profondo degli altri; il rantolo più prolungato...poi i muscoli si abbandonarono in un rilassamento totale.

Non capii subito se la morte era sopraggiunta e soltanto dopo il responso del medico compresi che il nonno se n'era andato.

Gli chiusi prima gli occhi e poi la bocca, a fatica, per non lasciarlo con quella smorfia così penosa. Il corpo si raffreddò velocemente e con mio padre ci affrettammo a rivestirlo prima che si irrigidisse del tutto.

Fu la mia prima ed unica esperienza di morte e mi lasciò il segno. Quello sguardo perso chissà dove rimase vivo a lungo nel mio pensiero e quella smorfia penosa del suo viso... il suo spirito vagò nella stanza seguendoci passo passo mentre lo vestivamo. Sistemammo il suo corpo ormai privo del soffio divino col quale poco tempo prima era riuscito a vederci, parlarci, baciarci, amarci...

Dio se l'era portato con sé privandoci del suo amore per sempre.



“Spero tu vegli sempre su di noi” dissi a voce bassa fissando la sua fotografia, e piansi in silenzio. Mi mancava la sua presenza, il suo affetto.

Rimasi in meditazione per alcuni minuti, poi mi accesi una sigaretta e continuai.

L’album mi mostrò le fotografie della mia seconda vita... un’immagine in particolare mi fece rivivere quel lontano giorno in cui l’aereo atterrò a J.F.K..

Era l’11 febbraio del 1971: il grande sbarco a New York...





















































3









Era freddo; c'era la neve e tutto era di un grigiore spaventoso. Quando parlavo di questa città la appellavo “ la foresta di cemento” anche per i grattacieli che la componevano.

Un po’ di colore verde traspariva qua e là grazie ad alcune conifere ricoperte parzialmente dalla neve mentre ripercorrevamo la grande autostrada che ci avrebbe condotti a Long Island e per la precisione in Nassau County. Di autostrade ve n'erano un'infinità: le parkways, highways, throughways, avenues. Non capii mai perché le chiamassero con diversi nomi così come esistevano diversi modi di descrivere le strade: streets, lanes, roads, driveways... Via via che viaggiavamo in quelle autostrade a otto corsie -mai viste né sognate fino allora- ci inoltravamo in zone di minor densità urbanistica che accoglievano parchi boscosi di conifere ed altri alberi spogli, che in autunno avrebbero rivelato foglie dal meraviglioso color rosso intenso come gli aceri, al giallo ocra ed al marrone delle altre specie. Le foglie cadute ricoprivano la terra sottostante formando un tappeto rigonfio, soffice e marciscente... Bellezze che conservavo ancora nitide nella mia memoria.

Mentre ci inoltravamo in quelle zone boscose del Nassau County sentivo crescere un'attrazione ed uno stupore ineguagliabile che mi facevano dimenticare "chi" avessi lasciato dietro, e tutte le mie perplessità o paure svanivano miraco-losamente. Ero soprattutto emozionato nel vedere la neve, a me sconosciuta (avendo vissuto in una città tropicale), e del mare che si frastagliava in mezzo ai boschi .

Mi inebriava il suo odore pungente e quello dell'aria fredda e ossigenata, attorno al molo della casa dove avremmo alloggiato per sei lunghi anni, dove i gabbiani strillavano volando pigramente in circolo... dove si udiva il lamento delle chiatte che trasportavano le merci verso la città di Manhattan, avvolte dalla nebbia.

Ero sbarcato nel mondo dei sogni: l'America, il paese della fortuna e della ricchezza... dove tutto era possibile; dove tutto si poteva osare... New York, davanti a me, come in una favola.

Pensai di poter ricominciare d'accapo. Quale entusiasmante possibilità!

Ero veramente folle.

Con gli anni scoprii che ciò che si era, ed il proprio passato, non si cancellavano né si potevano modificare più di tanto. Pur tentando di nascondere i difetti, essi affioravano imperterriti e riconducevano agli stessi errori. Lo imparai a mie spese, sbagliando ripetutamente nel tempo, sugli stessi argomenti.

La casa era in mezzo ad un boschetto, ed un grande cancello di metallo spalancato accoglieva il visitatore in una stradina interna asfaltata che conduceva alla stessa; andando oltre, a quella dei proprietari. Immersa nella bianca coltre di di neve alta trenta centimetri, distava di soli cinquanta metri dal mare e da un molo lungo un centinaio che si tuffava verso il mare grigio plumbeo. Era la copia di quelle casette del fine settecento olandese-tedesco, ed io la battezzai “la casa di Biancaneve” proprio per quel primo ricordo così candido.

All’orizzonte si vedeva Manhasset, la penisola adiacente dove si diceva avesse dimorato “Daisy”, mentre noi ci trovavamo a Kings Point (la Punta dei Re) dove sarebbe vissuto il "Grande Gatsby"

Fu in quel gelido giorno invernale che, per la prima volta, i miei scarponi affondarono la neve fresca ed intonsa scolpendo le mie orme. Tutto il mio corpo sembrava scricchiolare e le impronte, testimoni del percorso, mi sembravano quelle lasciate da Neil Armstrong sulla Luna. Ero affascinato da tutto questo paesaggio quando improvvisamente mi risvegliò da quel grigio torpore un urlo:

“Cookie! Cookie!”

Mi assalì improvvisamente, scodinzolandomi tutt'intorno, un bassotto raggiunto velocemente dal suo giovane padrone. Fu il mio primo contatto con un aborigeno americano, cioè uno Yankee.



Ricordavo della casa la moquette che ricopriva tutti i pavimenti, le pareti di carton-gesso, gli infissi di metallo simil-legno, le finestrelle all'inglese... gli scoiattoli che scorrazzavano sui tetti e le fronde degli alberi che la strusciavano quando tirava vento. Avevo registrato nel mio cuore il rumore melanconico delle chiatte che solcavano il mare attraverso la nebbia... Ricordavo la mia nuova stanza, con i miei libri, il mio letto, i miei mobili... trasportati da Buenos Aires. Mai come in quei giorni mi sentii a “casa”, nonostante la distanza e l’ambiente diverso. Avevo la mia famiglia, le mie cose.

Sarebbero stati anni duri per ambientarsi; per imparare la lingua, gli usi e i costumi, per fare amicizie.

Ero ignaro che a New York avrei vissuto i più inquietanti e freddi anni della mia vita, sebbene intrisi di esperienze e stimolati da qualcosa di spettacolare che noi sudamericani non avevamo neanche idea cosa fosse: il progresso tecnologico.

§























































































NETS









1





Ritornando alla realtà chiusi l’album dei miei ricordi e pensai a lungo al passato. Mi chiesi quant’era strana la vita.

Erano passati tanti anni da allora, e mi ritrovavo per l’ennesima volta in una terra a me sconosciuta da ormai quattro anni. Era proprio il destino, che muoveva la scacchiera della vita, oppure eravamo noi a modificarlo attraverso le nostre azioni? O erano delle “variabili” improvvise che ci imponevano di scegliere, intraprendendo strade diverse da quelle destinateci?

Quelle stesse scelte mi avevano portato in romagna, facendomi sentire, dopo lungo peregrinare di paese in paese alla ricerca di chissà cosa, un Ulisse dell’epoca moderna. Mi chiesi quanto tempo mi avrebbe potuto ospitare questa città, prima che il mio destino fosse cambiato ancora, e ciò non mi faceva affondare le radici in questa terra, impedendo di integrarmi... di sentirmi a casa mia. Mi era presa l’apatia, e l’angoscia di non saper quale fosse il mio destino; mi faceva sognare di peregrinare nuovamente, in altri lidi.

Fu proprio in quell'epoca che conobbi un collega di lavoro che aveva vent'anni. Mia moglie Valentina, mia figlia Veronica ed io ci affezionammo subito a lui nonostante le diverse caratteristiche comportamentali e le differenti opinioni che ci allontanavano dal resto della gente locale. Proveniendo dall’Italia meridionale, avevamo trovato un ambiente ostile e poco accogliente. Molte nostre conoscenze erano rimaste tali, senza aver mai avuto da parte loro la voglia di approfondire con noi un’amicizia. Ciò ci faceva sentire isolati, portandoci inevitabilmente a chiuderci nel nostro guscio come degli emarginati ed aggravare la nostra insoddisfazione di vivere in quel luogo.

Questo ragazzo sembrava invece entusiasta di poterci frequentare, probabilmente per la sua curiosità di confrontarsi con qualcuno che avesse delle idee diverse dalle persone che lo circondavano. Spesso rimaneva stupito del nostro modo di fare, della nostra accoglienza, della nostra ospitalità... I nostri detti e le nostre idee lo stimolavano; la nostra cucina la gradiva assai.

Ci sentivamo complementari su tanti aspetti e la nostra amicizia crebbe rapidamente cominciando a frequentarci. Veniva a trovarci quotidianamente, talvolta anche per pochi minuti, tanto per farci un saluto e sapere come stavamo.

Lo chiamammo affettuosamente "Zio Nets" perché, entrato per la prima volta a casa mia, Veronica lo soprannominò così. Un suono che non significava niente tranne che per una bimba di due anni. Piacque a tutti così tanto che non usammo mai più il suo vero nome.

Egli entrò improvvisamente nelle nostre vite senza farsi notare, pian pianino, tra un pranzo di lavoro ed una serata in discoteca; tra una telefonata ed una passeggiata in riva al mare.

Era alto, magro e ben proporzionato. I suoi capelli nero corvino erano tagliati sempre molto corti ai lati e sulla nuca, mentre davanti portava un ciuffo lungo con la riga in mezzo. I capelli erano sempre unti, così come quel volto sempre sorridente, contorniato? (sovrastato) da una fronte butterata dall'acne, che gli smascherava ogni suo vano tentativo di sembrare adulto.

Lui portò un po’ di buon umore nella mia casa. Il mio rapporto con Valentina in quel periodo era assai critico e la sua presenza fu molto gradita anche da lei, che vide la presenza di Nets come la situazione giusta per alleggerire la tensione del nostro malandato rapporto. La sua compagnia quotidiana ci dava ad entrambi la possibilità di distrarci dai nostri pensieri, da tutte quelle problematiche e tutti quegli interrogativi che rischiavano di farci precipitare sul baratro una volta per tutte. Ci fu, diciamo, una sorta di ritrovato equilibrio proprio nell'assurda presenza di un estraneo che si dimostrava sempre più generoso e affezionato a tutta la mia famiglia. Valentina lo prese anche a ben volere per la sua giovane età, la sua fragilità amorosa causata dalla rottura del suo fidanzamento con una ragazza, dalla quale non si riusciva a staccare sentimentalmente, tanto che quando Nets confidava certi suoi segreti a Valentina, di cui io non ero minimamente a conoscenza, diventavo quasi geloso.



§





Il concetto religioso di Nets era profondo. Spesso visitava i cimiteri dei paesini delle frazioni di Ravenna, tanto per dare un saluto alle anime che riposavano.

Il mio rapporto coi cimiteri invece non era mai stato eccezionale. Pochissime volte e per lo più di fretta. Una preghiera contrita di sofferenza e poi via da quel posto lugubre e chiuso. Mi dava l’impressione che rinchiudessero i defunti nei cimiteri per paura che i loro spiriti potessero scappare via, chissà dove, e mi infastidiva vederli tutti ammucchiati in loculi squallidamente posti uno sopra l'altro.

In Sicilia avevo visto l'unico cimitero piacevole della mia vita. Ero a Milazzo e mi dovevo imbarcare per le isole Eolie, quando uno del luogo mi consigliò di visitarlo. La vista a strapiombo sul golfo era suggestiva, e dava un senso di piacevole pace. La brezza che arrivava pareva dare sollievo più ai vivi che ai morti ma era di conforto sapere che i defunti riposassero in un posto dalla vista meravigliosa.

Le antiche cappelle ocra o bianche, spiccavano sul blu intenso del mare sottostante ed il verde dei cipressi abbracciandosi armoniosamente.

“Quando muoio voglio essere cremato e sparso in un campo di grano... voglio fluttuare nel vento come una foglia caduca d’autunno. Non voglio sentire la pesantezza della lapide sopra la mia testa”, gli dissi un giorno.

Nets rimase sorpreso del mio pensiero. Forse non si aspettava che parlassi della morte e della mia cremazione. Inoltre, non essendo ammesso dalla chiesa spargere le proprie ceneri, si era sentito offeso della mia bestemmia. Vedendo la sua espressione di disapprovazione sul viso, rettificai.

“Non voglio essere sotterrato...”

“Non puoi spossessarti del tuo corpo, perché arriverà il giorno in cui tutti risusciteremo assieme al Signore!” rispose, “...E allora i nostri corpi ci serviranno”.

“Ma io non voglio essere rinchiuso in una bara e sotterrato a marcire coi vermi!” ribattei. “E poi, che male c'è a tornare alla natura? A fertilizzare con i miei composti organici il terreno ed alimentare la linfa delle piante?”

“Perché non ti fai cremare e conservare in un'anfora, invece di farti spargere e disperderti?”

Nets cercava di dare una soluzione al problema. Le mie ceneri in una bella anforetta... Nel contempo non avrei dovuto sopportare il peso del marmo su di me. Anzi su ciò che sarebbe restato del mio corpo, poiché la mia anima sarebbe andata lo stesso a spasso!

L'ultima mia visita al cimitero, risaliva alla morte di mio nonno circa quindici anni prima. Non ero più tornato a fargli visita in quanto mi angosciava il pensiero di inoltrarmi in mezzo alle tombe. Pregavo da solo, quando lo ritenevo più opportuno. In romagna invece visitai assieme a Valentina il figlio di una nostra amica che dopo il triste evento era diventata quasi parte della nostra famiglia . Lui era un ragazzo di soli vent'anni quando un incidente stradale lo aveva allontanato da questo mondo. La sua tomba era insieme a tante altre ma si distingueva per una fotografia scolpita sul marmo nero. Era sereno, e mi fissava ovunque mi spostassi. Era impressionantemente reale e pareva volesse dirmi: “grazie di essermi venuti a trovare e avermi portato quei fiori! Pensateci voi a tirar su i miei genitori cari, che io li proteggo da sopra le nuvole!”

Quando andavamo a trovarlo, salutavo col pensiero tutti gli inquilini del padiglione cimiteriale. Leggevo i loro nomi e calcolavo velocemente l'età al momento della dipartita, poi guardavo le loro foto e cercavo di immaginarli coi nipoti, mentre mangiavano o parlavano in dialetto... in bicicletta o a guidare un trattore in campagna. Cercavo di dar loro vita nella mia mente ricordandoli o comunque parlando loro col pensiero.

“Non voglio che mia moglie o mia figlia vengano a piangere su una lapide di marmo” proseguii. “Voglio che mi ricordino per quello che ho fatto durante la mia vita e per il bene e l'amore che ho mostrato loro, ma non davanti ad una lapide in mezzo ad altre lapidi. Voglio essere libero di fluttuare ovunque, quando muoio. Come il vento lo fa tra i miei capelli, con la stessa libertà voglio che voli la mia anima, e sussurri ai viventi il dono dell’aldilà!”

Nets rimase zitto. Aveva capito la mia angoscia e riteneva suo compito avvicinarmi a Dio e ad avere fede.



§



Le nostre serate le passavamo a parlare sui fatti della vita, su ciò che esisteva oltre la morte... Ma discutevamo anche di cose futili, quali i nostri problemi con le ragazze... le difficoltà sul lavoro che ci accomunavano.

Faceva lo stagionale in banca e non vedeva l’ora di concludere per potersi dedicare allo studio e scrivere. A mio avviso era molto bravo; partecipava a concorsi letterari e collaborava scrivendo articoli per una rivista locale. Da grande, diceva, voleva diventare uno scrittore. Invidiavo tale determinazione e la capacità di fare delle scelte così razionali e mature per i suoi vent'anni.

Il lavoro, per lui, era solo un mezzo o uno strumento per raggiungere un ideale. Per me invece non vi erano "ideali" e per questo diventava insopportabile resistere in un ambiente simile alla naia. Mi ritrovavo ormai da più di quindici anni a svolgere un mestiere che non mi dava soddisfazione e trovavo arido. Sebbene qualcuno mi invidiasse per la sicurezza che mi dava oltreché al buono stipendio, sentivo che avevo sbagliato tutto nella mia vita il giorno in cui avevo accettato questa offerta di lavoro. Sovente mi lamentavo dei colleghi o dei rimproveri ricevuti dai superiori sentendomi spesso umiliato. Valentina aveva le "scatole piene" perché ormai era un lamento quotidiano, ma il grande cambiamento in me avvenne improvvisamente, quando decisi di scrivere un romanzo che sviluppasse alcune mie esperienze vissute, che poi proposi di scriverlo assieme a lui.

Parlai a Nets del mio progetto durante una passeggiata in spiaggia.



Era una giornata particolare. La sera prima avevano pescato le vongole di frodo smuovendo tutto il fondale. Tra quelle appena nate e trascinate a riva dalla corrente si trovavano migliaia di granchietti e pesciolini morti o boccheggianti. Faceva caldo; il mare era leggermente mosso e l'odore penetrante della morte di queste creature era nauseabondo. Quel giorno presenziavamo ad un assassinio di massa sapendo che i pochi superstiti sarebbero sicuramente periti prima del ritorno dell'alta marea. Tra un discorso ed un altro, io e Nets coglievamo i pesciolini ancora agonizzanti e li lanciavamo il più lontano possibile in mare sebbene entrambi fossimo consci che fosse inutile. Lo facevamo con lo spirito del buon samaritano per dare sollievo a quegli esseri sofferenti sperando di aver modificato il loro destino con un semplice gesto di bontà.

Nets trovò la mia idea affascinante. Anche lui aveva sempre sognato di scrivere un libro e il progetto lo entusiasmò. Decisi a portare avanti un nostro sogno in comune, programmammo la stesura dello stesso, gli argomenti da trattare ed i giorni in cui ci saremmo incontrati per discutere lo stato di avanzamento dell’opera.



Nets voleva scrivere su di una certa Paola, con cui aveva avuto una storia d’amore che era finita per motivi sconosciuti. Lui asseriva che era stata colpa dei genitori della ragazza e della distanza, in quanto Paola abitava in un'altra regione, ma sicuramente c’era qualcos'altro che non ci volle mai confessare.

Mi risultava che avesse deciso lui, di lasciarla. Però si tormentava quotidianamente con i ricordi dei tempi in cui stavano insieme; si domandava in continuazione cosa stesse facendo e parlava sempre della loro ultima telefonata.

Mi confidò, passeggiando quella mattina in spiaggia, del suo disagio quando scoprì che non era vergine .

Nets era giovane e trovavo strano che al mondo d’oggi un ragazzo della sua età si potesse creare questo problema.

“Scusa Nets, ma credi ancora alla verginità?”

Nets mi guardò stupìto della domanda e continuò a schiacciare ad ogni passo le vongoline morte sulla sabbia. Tenne lo sguardo fisso per terra mentre pensava ad una risposta coerente e sincera.

“E’ per caso un problema religioso oppure ti scoccia semplicemente che lo abbia fatto con qualcuno prima di te?” chiesi.

“No Alberico, non è un fatto religioso... o almeno penso. È che è sempre stata una mia fissazione quella di arrivare vergini al matrimonio... io non ero ancora pronto a cambiare d’idea. Vedi, io penso di non essere ancora maturo per farlo... Perdere la propria verginità e` un fatto sconvolgente “.

“E per quale motivo? Non c’è niente di male ad aver paura la prima volta, ma addirittura che sia stato sconvolgente!”

“Non ero pronto... è stata una cosa forzata.”

“Non ti è piaciuta?”

“Si. Mi è piaciuta... ma mi ha creato dei sensi di colpa. Ho cercato di capire perché ma non ci sono riuscito.”

“Colpa di averla sverginata senza fare con lei un atto di amore?” chiesi cercando di capire cosa preoccupava l’amico.

“No. Io l’ho fatto con sentimento.”

“E allora, se l’hai fatto con amore e ti è piaciuto... perché ti lamenti di averlo fatto? E’ un’esperienza che ti spalanca la porta del sesso, dell’amore... è importantissimo farlo per amore , la prima volta!”

“Forse è stato il fatto che ha insistito lei. Mi ha quasi costretto a farlo... solo perché lei l’aveva già fatto prima...”

“Non la consideravi pura?”

“Ci ho pensato dopo... Forse no. Chissà con quanti altri lo aveva fatto!” rispose Nets dando un calcio ad una lattina di Coca trovata in mezzo al suo cammino, quasi l’oggetto fosse quella ragazza ed attraverso il gesto di stizza l’avesse colpita. Era silenzioso e pensieroso. Cercai di spezzare la tensione.

“Ti racconto la mia prima esperienza...” dissi sorridendo. “Se vogliamo, anche per me all’epoca fu sconvolgente, in un certo senso... Però oggi la trovo divertente. E poi, la prima volta non si scorda mai”

Nets mi guardò incuriosito.

“Vedi, ero in America... Avevo diciassette anni ed incominciavo a preoccuparmi di rimanere ancora vergine a lungo. Non avevo domestichezza con l'inglese e con gli usi e costumi degli americani. Non sono mai stato "bello" o "maschio"... e l'essere dolce e romantico non aiutava molto. Ero tutt'altro che aggressivo. Avevo il viso butterato dall'acne e le ragazze non perdevano tempo con me perché ero timido e non riuscivo a comunicare per colpa della lingua. Non ero un asso nello sport e non fumavo la marijuana, che andava di moda tra i giovani.”

Nets seguiva il racconto interessato. Forse riusciva a veder sé stesso in qualcosa.

“La maggior parte delle loro feste erano delle camere a gas. Avevo paura della droga e compensavo fumando sigarette, cigarillos, sigari e persino la pipa ma non bastava ad integrarmi in quella società. Perlopiù abitavo in una ricca comunità ebraica, molto snob. Il mio essere "cattolico" stonava. Quindi niente ragazze e niente sesso.”

“Come facevi a rifiutare l’erba quando te la offrivano?”

“Sinceramente bastava dire “no, grazie”, ma il problema che ti attanagliava il cervello era che attraverso quelle semplici parole, ti giocavi la scopata...”

“Ma non c’erano ragazze serie? Cioè... delle ragazze con dei sentimenti...”

“Sicuramente. Ma a me non erano capitate... forse perché andavo dietro a quelle carine che erano anche un po’ troie...”

Nets approvò questo mio commento. Chi più di lui avrebbe associato la droga al malcostume ed all’essere “facile”?

“...Mio padre si iniziava a preoccupare del fatto che non avessi l’amichetta e si sentiva in colpa per avermi sradicato dal mio paese, strappato le mie radici dalla mia terra.”

“Ti aveva inserito improvvisamente in un ambiente ostile e difficile...”

“Sì, tanto da chiedermelo ossessivamente. Mi voleva portare in Italia con sé per presentarmi delle "donnine" negli alberghi che lui conosceva... Continuavo a cercare di tranquillizzarlo dicendogli che io non mi preoccupavo... che non mi interessava più di tanto... che forse non ero ancora maturo o pronto per quel grande evento, ma in realtà mi preoccupava la sua "preoccupazione" e ciò non faceva altro che aumentare la mia ansia per essere ancora vergine!”

Nets sorrise.

“I giorni però passavano e la mia situazione era divenuta insostenibile. Strimpellavo sempre più nevroticamente la mia chitarra per integrarmi in quel mondo maledettamente affascinante ed irraggiungibile; sempre più impacciato; sempre più depresso. Ed alla fine quel giorno arrivò anche per me...”

“Cosa successe?” chiese incuriosito. Adesso stavamo camminando lentamente e da ciò dedussi che a Nets interessava la mia storia. Forse cercava di capire le sue emozioni attraverso l’esperienza di un amico. Forse era solo divertito... ma a me pareva ascoltasse con attenzione, concentrato.

“I nostri padroni di casa, avevano un figlio di qualche anno più giovane di me, David. Eravamo diventati amici di sport. Grazie a lui “le porte dell'inferno” mi si spalancarono quando mi raccontò le storielle erotiche di una sua compagnetta di classe, una certa Nicky...”

Guardavo divertito Nets che, avendo io deliberatamente pronunciato la parola “inferno”, aveva sgranato gli occhi e mi guardava incuriosito, avendogli messo il dito nella piaga.

“Secondo le morbose fantasie di David, questa sua compagnetta che allora era solo quattordicenne, si faceva "sbattere" da tutti, persino in due alla volta! Io lo presi in giro pensando fossero soltanto sue fantasie e gli dissi: “non ti credo” ma ascoltando le sue insistenze e le varie “prove” che lui cercava di darmi a conferma che non era un bugiardo, mi venne un’idea: “fammela conoscere!. Ti riferirò se è vero o meno ciò che si racconta di lei” dissi, e così...”

“Ma allora sei proprio...”

Mi fermai e guardai Nets che non approvava. Mi chiesi che razza di cervello avesse. A qualsiasi maschio piaceva sentire delle storie di sesso, un po’ piccanti.

Continuai... “Non so che giorno fosse quello, ma certamente era primavera. Mi inventai un piano stupido che funzionò. Passai dalla scuola di David con la mia auto che era il mio asso nella manica poiché nessuno guidava in quanto erano minorenni. Ero agitatissimo, le mani mi sudavano; mi sentivo un imbecille e sentivo una colica in arrivo ma ormai avevo dato l'appuntamento a David e non potevo più tirarmi indietro. E poi sentivo che questo fatidico giorno poteva essere arrivato e ciò mi riempiva di eccitazione e di ansia.

Gli avevo detto di aspettarmi con lei davanti alla scuola per offrirle casualmente un passaggio. Difatti li trovai che lei stava iniziando a fare autostop e la cosa funzionò benissimo. Poche parole e pochi chilometri le bastarono (con David seduto dietro) ad appoggiarmi la mano sulla coscia ad un palmo dal mio...” guardai Nets in segno d’intesa, “...che ovviamente si risvegliò dal coma in cui viveva da tempo. Aumentarono i battiti cardiaci, la sudorazione, e mi si annebbiò la vista. Non capii più niente, come succede quando si è presi dal panico, e guidai in quello stato per un po’, fintanto che Nicky non mi sorrise e con una smorfietta mi fece capire che si augurava di rivedermi all'indomani.

Il giorno dopo la invitai a mangiare un “hamburger” e mentre eravamo seduti in macchina mi lanciai con una scusa cretina e la baciai. Ci accorgemmo che ci guardavano; d’altronde eravamo nel parcheggio di McDonald’s e la` non si usava pomiciare in pubblico...”

“Non è bello farlo davanti agli altri!” ammonì Nets sempre attento a ogni parola che dicessi. Io feci finta di niente e continuai:

“Pensa che mi ordinò di mettere in moto e di guidare... Lì per lì pensavo che se ne approfittasse...sai com’è... la macchina, ero grande, si faceva vedere in giro... Invece mi fece entrare in un parcheggio immenso dove transitava pochissima gente e vi era modo di nascondersi anche se in pieno giorno.

Lasciavo ormai che conducesse il gioco. Attendevo la prossima mossa.

“ Adesso tirati giù i pantaloni” mi disse, cominciando a toccarmi il petto mentre baciava l'orecchio con la punta della lingua!”

“E tu l’hai fatto?” chiese Nets inorridito dal pudore.

“Sì. Ubbidii senza fiatare pensando che era matta a voler scopare in pieno giorno... La cosa però mi andava, benché fossi chiaramente imbarazzato, e quindi eseguii l'ordine all'istante avvolto da uno stato di eccitazione che non mi faceva ragionare in modo razionale. Abbassai i pantaloni tanto quanto bastava a far fuoriuscire il mio pene, rigonfio e turgido da un pezzo. Lei si chinò prontamente tenendosi i lunghi capelli biondi di lato e cominciò a succhiarlo, fino in fondo... lo infilò tutto in gola ed io sospirai inebriato da quella sensazione di freschezza. Continuò così qualche secondo, che mi parve interminabile; estasiato ma vigile: i miei occhi controllavano ovunque per evitare i guardoni o i passanti. Poi lei smise e mi chiese di masturbarla. Pochi secondi e si soddisfò. Io ero in estasi nonostante non avessi raggiunto alcun orgasmo. Avevo finalmente raggiunto il mio scopo: sebbene ancora fossi vergine non ero più senza esperienze.”

“Ma allora non te la sei scopata...” affermò Nets che seguiva passo passo le vicende rivivendo forse la sua prima esperienza.

“Aspetta! non essere impaziente... Ti confesso comunque, che ancor oggi che ti racconto questa storia, sento una grande eccitazione!... Andai in bianco ma non mi importò niente. Arrivato a casa raccontai subito la mia esperienza a David e con presuntuoso orgoglio dissi che ormai me la sarei fatta di lì a poco tempo e che confermavo le sue affermazioni dei giorni precedenti.

Qualche giorno dopo, l'appuntamento era a casa mia, con la scusa che in tale occasione avrebbe indossato una minigonna per farmi veder come le stava. Sebbene non le avessi mai viste, io le ripetevo sempre che aveva delle belle gambe e così il piano prevedeva che, portandomela a casa, quando si cambiava, ci avrei provato. Mia madre e mia sorella erano via a far la spesa e mia nonna era sorda ed invalida, quindi immobilizzata nella sua cameretta. Mio padre lavorava fino a sera e la casa era a mia completa disposizione. Era tutto pronto per il grande evento e avevo ripetutamente fatto le prove di come buttarla sul letto, cosa dire e come fare a spogliarla totalmente e scoparmela. Avevo comperato i preservativi e mi ero improfumato tutto, compreso lì, in quel posto: con grande bruciore!”

Nets si mise a ridere.

“Nicky arrivò puntuale. Suonò il campanello. Io aprii dopo qualche secondo trattenendo il fiato e cercando di comparire il più calmo possibile. Poi dissi due o tre paroline dolci come: “quanto sei bella”, e “hai portato la gonna!.. brava!”. Le chiesi se voleva vedere la mia camera e lei chiaramente accettò. Mi prese per mano, osservando qua e là disse che abitavo in una bella casa; poi, salendo le scale mi accarezzò il sedere sorridendo.

Nicky era una biondina un po’ grassottella... formosetta, con un viso simpatico ed un po’ smorfiosa. Aveva la voce da ochetta -che in quel caso non guastava- ed era costantemente stonata dalla marijuana.”

“A quattordici anni!?” chiese lui. “Che schifo!” aggiunse.

Lo guardai approvando e continuai:

“Arrivammo sul famoso letto ormai quasi disfatto dalle mie prove e ci sedemmo sopra. Mentre cominciavo a farle la proposta di spogliarsi per indossare la gonna nel mio inglese rudimentale, suonarono alla porta.”

“Nooo!”

“Il panico! il cuore mi smise di battere per qualche secondo.”

“Ci credo!... Ma chi era?”

“Le chiesi di non muoversi. Corsi giù per le scale di legno ricoperte di moquette a tre scalini per volta. Pensavo: “che fossero mia madre e mia sorella?... No... Troppo presto. Ma allora... chi?”. Mi affacciai col cuore in gola e vidi un uomo di colore di una cinquantina d'anni, con dei vestiti in mano ricoperti da un cellofan.”

“Perché dici “un uomo di colore”?” chiese incuriosito,

“Perché, come dovrei chiamarlo?”

“Negro.”

“Per me non è carino chiamarli così. Lo trovo dispregiativo... Comunque...”

Mi preoccupava l’affermazione che aveva fatto. Non potevo concepire che Nets, essendo addirittura molto religioso, usasse tale termine per descrivere una razza e poi parlasse di fratellanza tra gli uomini. Fu un pensiero che mi trafisse in una frazione di secondo ma mi ripresi subito e, cercando di ignorare il suo commento, continuai.

“Era quello della tintoria, mi disse che doveva consegnarci i vestiti. Li presi al volo e pagai ciò che dovevo in qualche frazione di secondo dando un sospiro di sollievo. Poi, su di corsa. Le gambe mi tremavano. A quel punto era ancor più difficile riprendere il discorso lasciato in sospeso in quanto si era sicuramente rotto quell'incantesimo iniziale. Rientrai in camera e vidi Nicky che si trastullava, ancora seduta sul letto, osservando la mia camera. Mi sorrise e mi invitò nuovamente al suo fianco. Si era già cambiata ed era lì con la gonna jeans addosso. Mi sentii deluso. Adesso non avrei potuto né vederla spogliare né aggredirla mezza nuda! Guardai le sue cosce, tornite, rosee... Mi immaginai il suo pube, il suo sedere... Ma passarono solo pochi secondi che ci stavamo baciando come nelle prove immaginarie. Le mani si muovevano dappertutto senza sapere esattamente dove andare quando di colpo... squillò il telefono!”

“Oh, cazzo!... e ora chi era?”

“Io pensai che fosse mia madre. Lei sapeva che ero a casa e si sarebbe preoccupata sicuramente se non mi sentiva. Così corsi a rispondere : Era la segretaria di mio padre! Tornai da Nicky ormai demoralizzato.

Sembra strano ma il destino mi riservava una sorpresa... perché ricominciammo subito. Mentre ci baciavamo, sospiravamo di piacere e le nostre mani si toccavano vicendevolmente tutto il corpo, pensai :”Adesso o mai più!” e mi tuffai.

Infilai finalmente le mani sotto la gonna e toccai le cosce morbide fino ad arrivare all'inguine. Poi le mie dita accarezzarono il pube... sfiorarono le sue labbra e la penetrarono... tutto in una lotta appassionata di baci e di carezze reciproche contorniate da eccitanti sospiri e gemiti. Tentai di toglierle le mutandine ma non ci riuscii... le stavo sopra e non si poteva sollevare!”

Nets mi guardava divertito.

“...Lei mi bloccò e si spogliò lasciandosi addosso solo la maglietta senza reggiseno. Io sinceramente non ricordo più ciò che feci se non fino al momento in cui realizzai che così... un po’ alla cieca, non ci riuscivo. Speravo di non essere interrotto sul più bello, ma inevitabilmente tutto il trambusto mi aveva innervosito e non riuscii a fare bella figura. Lei mi fermò con tenerezza e lo prese con le sue mani infilandoselo lentamente. Era bagnata e gemette come se avesse già raggiunto l'orgasmo. Mi disse che ero enorme, mi disse che era meraviglioso... durò appena quindici secondi. Un su; un giù... un altro su, e venni.”

“Allora non è stato un gran ché!” disse Nets ridendo, soddisfatto che anche la mia prima esperienza non fosse stata meravigliosa. La delusione che avevo provato era sicuramente per lui un conforto.

“Ma il bello viene adesso! Pensa che restai su di lei qualche secondo, poi la baciai teneramente sulla guancia, le chiesi scusa e tirai fuori il mio pene sgonfio e incapace. Nicky disse di aver comunque raggiunto un orgasmo (forse era una ninfomane, forse inventava anche lei per farsi grande) e mi incominciò a baciare nuovamente l'orecchio quando mi resi conto che non avevo pensato a tirar fuori il mio preservativo! “Porca puttana!” esclamai alzandomi.”

“Tu...”

“Sì... le dissi: “Stai ferma!”, e mentre lei chiedeva cosa fosse successo io riprendevo dalla sua vagina il preservativo con la punta delle dita. Mi prese il panico. Mi chiesi come cazzo avessi ragionato! mi sentivo un imbecille ed ero spaventato di ciò che poteva accadere. E se questa mignottella adesso rimane incinta!?... urlai “Oh mio Dio! cos'ho fatto! “ Nudo, presi Nicky per mano ed in punta di piedi andammo verso il bagno mentre ridacchiava divertita senza capire cosa fosse veramente accaduto. Mia nonna, nonostante la sua sordità, sentì qualche rumore e domandò chi fosse. Risposi a malo modo, e misi Nicky a gambe per aria nella vasca lavandole con un getto d'acqua fredda la vagina. Mentre eravamo nella vasca, io preoccupato e lei che si divertiva, sentii tornare a casa mia madre e mia sorella.”

“Cristo! No!”

“Corsi verso la mia stanza asciugandola alla rinfusa urlando dalle scale “sei tu, mamma?...io sto facendo la doccia, poi scendo!”.” dissi imitando la voce disinvolta di allora.

“Ci asciugammo parzialmente i capelli col fon e quando scesi, molto velocemente presentai Nicky, la mia “amica”. Ricordo ancora la loro espressione incredula sorprese nel vedere con me una ragazzina bagnata che le salutò in modo smorfioso e sparì dalla loro vista in pochi istanti.” conclusi ridendo.

“Era fatta. Andammo in giro e ci facemmo vedere in centro dagli amici. Andai per prima cosa a trovare Steve, che lavorava in una gelateria.”

“Chi era Steve?”

“Uno dei miei migliori amici. Sorridendo ed ammiccando, mi portò dentro al magazzino con la scusa di prendere un gelato particolare ed in pochi secondi gli feci cenno di sì col pollice in alto. Fu una gran soddisfazione , mi sentivo grande.

La serata trascorse tra una chiaccherata e qualche bacio fino a che lei mi disse che aveva voglia di rifarlo, che le era piaciuto tantissimo!. Le inventai che ero stanco e che dovevo tornare a casa perché impegnato con la famiglia. In effetti, di Nicky non me ne fregava un tubo, era stupida e troia. Me l'aveva data ed era tutto ciò che mi interessava. Quindi sarebbe stato troppo, in un sol giorno, rimettere se stessi a prove di virilità appena riuscite (perlopiù neanche bene...) e poi, c'erano mia madre e mia sorella... come avrei potuto? Inoltre, la preoccupazione di averla messa incinta non mi abbandonava e ciò mi aveva ancor più ammosciato. No. Troppo stressante!

Dovevo “digerire” la bravata e quindi ci lasciammo con la promessa che l'avrei richiamata presto...”

“Bella storia!” disse Nets col sorriso ancora stampato sulle labbra.

“Veramente traumatica! Non rividi Nicky mai più ma seppi dopo un mesetto che non era rimasta incinta. Daltronde pensai, che se non le fossero venute le mestruazioni, mi avrebbe sicuramente cercato lei! E forse neanche... con tutte le scopate che si faceva, forse avrebbe incastrato qualcun'altro... perché proprio me? Mi rimase comunque la paura di aver commesso una stupidaggine imperdonabile. Sono ricordi di scene tutto sommato anche divertenti, come puoi vedere. Anche per me fu difficile la prima volta!”



“Certamente una storia interessante!... ma... quante donne hai avuto nella tua vita?...” chiese Nets mentre ributtava in acqua un pesce agonizzante.

“ Vuoi proprio saperlo?”

“ Si. Credo di conoscerti sempre meglio se mi racconti il tuo passato, e mi incuriosisce.”

Dirgli veramente quante donne avessi avuto era difficile perché non le avevo mai contate. E poi, cosa voleva dire ? Forse posseduto... o ancora, solo un flirt?

“Intendi dire quante donne abbia amato?” chiesi con un po’ di titubanza.

“Si e no.”

“Mah... diciamo che non l'ho fatto per amore una volta sola...”

“ Per caso con una prostituta?” continuò ad indagare lui seppur con imbarazzo.

Adesso sorrideva. Per lui era sicuramente interessante conoscere le esperienze di un adulto venti anni più grande di lui; curiosità mista a divertimento di scoprire le intimità di un amico e nello stesso tempo acculturarsi in materia sessuale. Lui aveva avuto solo un’esperienza e viveva ancora di fantasie, desideri per lo più platonici, sentimentali, quasi eterei. La sua grande fede cristiana proveniva dall’aver vissuto in mezzo ai preti ed alle parrocchie, provocandogli tabù insormontabili. Per questo mi chiedeva se l'avessi fatto con o senza amore. Per lui era quasi inconcepibile farlo senza sentimento o con le puttane.

“ No. Con le mignotte mai” risposi.

“ Cosa?”

“ Le “mignotte”“ rimarcai. “Puttane, prostitute...”

“ Va bene! Ho capito... ho capito! Basta così... “

“ Ma perché; ti offendi, se dico “puttane”?”

Scosse il capo e arrossì leggermente. Forse, le parolacce lo mettevano in imbarazzo. Figurarsi se avesse sentito una bestemmia!

“Comunque. per tua tranquillità... no. Le mie donne... vediamo un po’... Direi tra flirts, amori passeggeri e quelli più intensi... circa una trentina.”

Si voltò di scatto e mi guardò stralunato.

“Trentina!? Ma...Io...io credevo che tu fossi esperto... non però fino a questo punto!”

“ Ehmbè, ti dispiace? a me no!” dissi ridendo. Non mi aspettavo di certo una reazione simile. Pensavo a quanto sarebbe stato assurdo il criticarmi per aver avuto delle storie.

“ Ma cosa vuoi, dopo tutto ho vent'anni più di te sulle spalle...ciò significa grosso modo una ragazza l'anno! Mica tanto!”

“Io non pensavo così tante...”

“ Scusa, Nets. Ma non vorrai mica dirmi che ti scoccia? Dopotutto le storie le ho avute io!”

“No. È che sono veramente sbalordito! Io allora sono proprio scarso“

“Ma non è vero! È solo che tu...”

Pensavo invece che se non fosse stata la divina provvidenza a farci conoscere lo "Zio Nets" avrebbe avuto ottime chances di diventare un buon prete. Non lo dicevo con cattiveria. Nonostante il mio essere anticlericale, riconoscevo quando c'era un prete saggio che sapeva fare il buon pastore e quando la Chiesa diceva cose giuste. Anche se io non concepivo il loro concetto di castità, capivo o cercavo almeno di mettermi nei panni di chi ci credeva, e comprendevo l’imbarazzo del mio amico. Lui si sentiva impuro e peccatore di sicuro, per aver perso la sua verginità... io invece ritenevo di dover ancora approfondire le mie esperienze sessuali per conoscer meglio il mio corpo e la mia mente. A mio parere un matrimonio non poteva funzionare se non si sapeva a cosa si andava incontro, e la sessualità vissuta con serenità e senza tabù era essenziale. In quel momento, lui era scioccato nel pensare che la mia vita l'avessi passata a fare il puttaniere. E io invece mi consideravo scarso!

“...E’ solo che tu sei giovane. È normale. Poi vedrai. Soprattutto se segui qualche mio consiglio...”

Avevo il vizio di diventare paterno. I miei consigli... Ma cosa volevo dimostrare? Forse vent'anni erano davvero tanti. Forse, non a torto, qualcuno si chiedeva apertamente se fossimo due gay o cosa. Nessuno tra i miei e suoi amici pensava fosse logico avere un amico con quella differenza di età. I suoi amici gli chiedevano cosa ci trovasse di divertente ad uscire con me; i miei invece scherzavano blaterando che mi ero fatto “l'amichetto” ed altri aggiungevano : “della moglie”. Era addirittura successo che un suo capo, vedendoci sempre insieme e sapendo che ci frequentavamo anche fuori dal lavoro, gli sputò in faccia che ero un "culattone". Lui dapprima aveva cercato di difendermi, poi si era scocciato e aveva lasciato perdere, ma tutte le volte che lo incontrava, notavo il suo imbarazzo, e si allontanava con una qualsiasi scusa per non farsi scorgere assieme a me. Oppure, faceva finta di non vedermi e non mi salutava neanche.

A me aveva dato fastidio che me l'avesse raccontato. Mi pareva una mancanza di “tatto” e mi ero sentito avvilito di qualche colpa che non avevo e di tanto razzismo nei miei confronti da chi invece aveva mire nascoste, e culattone, probabilmente, lo era proprio.

Gli chiesi se non si fosse offeso del commento e del fatto che anche lui poteva essere preso per gay e lui mi rispose negativamente. Lui mi restituì la domanda ed io risposi che mi scocciava che ci prendessero per omosessuali perché semplicemente non era vero. Mi dava veramente fastidio pensare che esistesse tanta grettezza intorno a me. Non potevo concepire che la gente mi etichettasse cercando di offendermi soltanto perché non capiva che poteva esistere un’amicizia tra due persone con una grossa differenza d'età!

Il discorso si chiuse lì.

“...ma vedrai, che ti basterà frequentarmi un po’ per pensarla come me...” continuai, pensando al problema della verginità.

“ E con tutte sei ...riuscito a...?” chiese lui.

“ Ma no... via. Non con tutte.”

“ E allora con quante hai fatto l’amore?” Adesso si era un po’ rincuorato.

Stava a me non esagerare, altrimenti, bigotto com’era, si sarebbe scandalizzato. E poi, mi pareva di essere presuntuoso nel vantarmi di tutte le mie avventure. Nel contempo, mi faceva piacere poter aiutare un ragazzo senza esperienza ad aprire gli occhi... a svegliarsi un po’. E soprattuto sanargli quei tabù assurdi che si portava dietro dall’adolescenza. L'avrei gradito io, un amico più grande alla sua età!

“Quel che basta per farsi una certa esperienza...”

“Però..!” concluse guardandomi divertito. “ Vedi, Alberico, io a volte mi sento ancora un bambino... ho avuto una sola esperienza e ti invidio un po’.”

“ Ma sul serio? Guarda che hai ancora tanti anni per crescere e fartele... e poi, ti confesso che a volte è meglio una storia d'amore puro senza sesso che “una botta e via”. Senti qua: ero a Londra, molti anni fa e mi capitò una bella ragazza di colore, sai, proprio un’africana...”

“ Pure con una negra!”

“E non sarai mica razzista?!” chiesi fermandomi improvvisamente.

“No...” rispose “ma sei stato proprio con tutte!”

“Beh! se è per questo anche con delle brasiliane, una cinese-americana e... basta. Basta così. Ma torniamo alla “negra”, come la chiami tu... era bellissima. Due tette sode; rigide. Un corpicino magro, il sedere ben tornito... bella anche di viso!... L'abbiamo rimorchiata per strada. Il mio collega l'ha rimorchiata per strada. La seguivamo per Kings Road, e ad ogni vetrina che si fermava la guardavamo con intenzioni poco serie. Dopo circa mezz'ora ci ha stretto l'occhio lei, facendoci cenno di entrare a casa sua!”

“Ma allora era una ... come dici tu, "mignotta"?”

“Non credo. Almeno i soldi non ce li ha chiesti. Era anche di buona famiglia, sai?”

Mi ero fermato e descrivevo la storia con brama.

“ Il brutto è che fu troppo facile. Capisci?. Troppo facile. Me la scopai e poi non seppi più che fare. Parlava poco... un inglese rudimentale... poi aveva fame... Volle mangiare un pollo arrosto!”

“...con le patatine?...” chiese divertito Nets.

Sorrisi. “Mi sono sentito in imbarazzo totale. Mi comportati talmente da stronzo che la mollai appena finì di divorare il "volatile". L'indomani le inventai che partivo per l'Italia”.

“E perché?”

Guardai Nets con aria di scherno. “ Non volevo mica fidanzarmici!”

“E... cos’hai provato?”

“Cosa intendi dire?”

“Intendo... essendo il colore della sua pelle scura... fare un atto sessuale con una persona diversa da te... dicono che i negri puzzino...”

Cominciai a convincermi del razzismo di Nets.

“Intanto non puzzava. Avevamo fatto una doccia! Per quanto riguarda la pelle è naturale che ci possa essere un certo stupore a vedere il tuo corpo pallido a confronto del loro, ma ti garantisco che è solo qualche istante. Forse, l’unica perplessità può albergare nel fatto che hanno quelle bocche carnose così... grandi. Così sensuali... aggressive. Mi faceva paura.”

“Paura?”

“Sì. Provavo paura a baciarla. Le cose inusuali, non conosciute, ti creano ansia. Una ragazza di colore o che parla una lingua diversa dalla tua ti può creare imbarazzo. Tentenni... la confronti con le esperienze già avute...”

Pensai e riflettei su ciò che dicevo a Nets. “Però io non sono razzista. E’ solo che tutto ciò che non conosci o non ti somiglia, ti fa paura. E’ la legge della natura che ti fa diffidare da ciò che è diverso...”

“Va, allora, se non ti consideravi un razzista, perché a quel punto non goderti la lovestory un po’ di più?

“Con questa ragazza semplicemente non era nato il "feeling" necessario, e quindi mi sono trovato in imbarazzo; finito ciò che mi aveva attirato a lei, non vi era nient'altro. Tutto qui. Ecco perché ti asserisco sempre che magari è meglio non farci niente con una donna, ma ricordare quell'esperienza tutta la vita... come con quella di Verona.”

“Verona?”

“Si. Non ricordo il suo nome. Ricordo solo che alloggiavo a Monza; ero a fare uno dei soliti viaggi per lavoro e questa ragazza si trovava nella mia stessa pensione. Una sera la invitai a mangiare una pizza. Era l'ultima sera che entrambi saremmo rimasti lì.”

“Te la sei ...?”

“No. Ci siamo guardati con un'intensità fortissima. Lei allora mi disse che la turbavo”.

“tutto lì?”

“Si. Tutto lì. Ero impazzito. Non feci che pensare a lei. Tutta la sera. E l'indomani la chiamai, prima che prendesse il treno per Trieste”.

“Ma scusa, non era di Verona?...”

“Si ma andava a Trieste...”

“e perché?...”

“Ma che cazzo ne so!” Sorrisi.. Mi ero assorto troppo nei ricordi e tornai alla realtà.

“Senti, non vorrai proprio che te le racconti tutte, vero..?”

Mi rispose negativamente ed allora facemmo dietrofront e riprendemmo la via del ritorno.



Avevamo ormai fatto circa sei chilometri e sentivo la stanchezza sui polpacci. Non ero abituato a camminare a quel passo lesto e per lo più i miei chiletti di sovrappeso si facevano sentire.

Sulla riva trovammo seduta su di una stuoia una donna cinese. Vendeva chincaglieria del suo paese. Roba carina, però.

Aveva disteso un telo sulla sabbia e ci teneva ventagli, scatoline varie, medicinali... carte tarocchi degli “I Ching" e delle strane palline smaltate di blu e verde con lettere cinesi disegnate sopra.

“Buon giorno. Cosa sono queste?” chiesi piegandomi sulle gambe verso di lei ed indicando le palline colorate.

“Buon giolno!” sorrise la donna “ sono Sfele "Lunga Vita"!”

“E... a cosa servono?”

“Antistless...e buona foltuna, pela tua vita. Lunga Vita!” rispose ancora.

“Belle.” disse Nets afferrandone una.

La sfera emise un suono metallico. Bello. Un suono squillante. Come una campana.

“Hei! ma queste sono di metallo! e senti che bel suono!” disse stupito.

Le palline avevano una pesantezza molto piacevole. Stavano bene sulla palma della mia mano.

“Gualda”. disse la cinese “ plendi in mano le sfele. Tutte due. Poi gilale intolno a palmo tua mano. Questo aiutale contlo stless”

Ci divertimmo un po’ a far girare le sfere sul palmo delle nostre mani.

“Gualda anche cosa fale io... gila”

Mi girai e la signora mi ruotò le boccette sulla schiena, premendole leggermente contro il collo dicendomi che faceva bene all'artrosi cervicale. Pareva sapesse che soffrivo proprio di quel male. Mi rilassò e il leggero brivido che le palline mi trasmisero mentre le spingeva sul mio collo mi fece piacere.

“Quanto vuole?” chiesi indicando le sfere della Lunga vita.

“dodicimila”

Presi i soldi, pagai e ringraziai la donna. Anche Nets comprò un paio di sfere. Una suonava squillante; l'altra aveva invece un suono più grave ed anche più dolce. Più posato. Insieme facevano un bel concerto.

Erano suoni complementari.

§







Camminammo per un po’ in silenzio. Respiravo l'aria putrida e salmastra e grondavo di sudore sotto la maglietta indossata per non ustionarmi e per nascondere i rotolini. Ogni tanto mi avvicinavo all'acqua e bagnavo i capelli per evitare l'insolazione e pensavo, pensavo a qualcosa di grandioso... sì, mi era venuta in mente una bella idea! Glielo chiesi quasi a bruciapelo:

“Senti un po’, amico mio. Cosa ne pensi se scriviamo un libro sulla nostra amicizia... sulla nostra vita?”

“Un libro?” Nets ripeté le parole ad alta voce per afferrarne il vero significato.

“Si. proprio ciò che senti. Volevo scrivere un libro sulla mia vita ed avevo già iniziato a scrivere qualcosa tre anni fa, sul mio divorzio e sul rapporto con mio figlio, sulle mie sensazioni e pensieri di tutti i giorni... su me stesso... Ma la cosa mi convince poco. Non penso possa interessare a nessuno... Mentre un romanzo che parli di due amici come noi ad esempio, che sono come dire... “complementari”, mi pare una buona proposta”

“Tu quarantenne, con esperienza di vita...” disse Nets.

“... ma anche con le mie frustrazioni...” aggiunsi. “E tu, invece nel bel mezzo della giovinezza con i tuoi vent'anni...”

“Ehi! i nostri sogni nel cassetto! Mi pare un'ottima idea... magari la scriviamo anche insieme!”

“Si. potremmo scriverla insieme... pensavo forse che sarebbe interessante dimostrare proprio la nostra diversa mentalità, provenienza ed età anche attraverso il nostro linguaggio. Tu hai una ottima conoscenza della lingua e mi piace come scrivi... io potrei compensare con la mia semplicità, schiettezza... Col mio “vissuto”.”

“Grande! Magari in tre parti...” replicò Nets. “Per esempio, il primo capitolo potrebbe parlare dei miei sogni... nel secondo racconti la tua vita. Ci presentiamo l'uno all’altro... e poi il terzo lo scriviamo insieme... Sì! insieme... Quando iniziamo?... anche perché io dovrei incominciare a pensarci su... non ho niente per la testa.”

“Non ti preoccupare, abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Nessuno ci rincorre!”



Eravamo tornati al nostro ombrellone dove ci aspettavano Valentina e Veronica che con somma gioia cominciò a giocare con le palline cinesi sulla sabbia sporcandole completamente, assieme al cofanetto rivestito di seta all'interno. Nets sembrava estasiato dell'idea ed io, sinceramente mi sentivo inebriato dell'idea di poter un giorno diventare uno “scrittore”. Sì. Pensavo proprio che questa idea me l'avesse ispirata qualche buon anima in cielo. Non poteva essere farina del mio sacco. Poi, mi impensieriva cosa e come avrei scritto, come avrei trovato i finanziamenti necessari per pubblicarlo... e soprattutto, mettevo in dubbio le mie capacità letterarie. Ero nato all'estero, dopotutto, ed il mio linguaggio era piuttosto incompleto... Sentivo che Nets, compensando le mie lacune, mi avrebbe portato al successo in questa impresa e ciò` mi confortava.

“Mi è venuta un'idea eccezionale” tuonò lui improvvisamente.

“Quale?” chiesi guardando Valentina che, incuriosita, aveva abbassato gli occhiali ed il libro che stava leggendo per guardarci meglio, girandosi dalla nostra parte.

“Non te la posso dire... dev'essere qualcosa che introduca il concetto fondamentale della trama... senza però che si possa intuire subito... adesso ci sto meditando; presto vedrai...”

“Ma di che stai parlando... Zio Nets?” chiese Valentina prendendolo un po' in giro. Nets ed io sorridemmo e spiegammo sommariamente la nostra idea attendendoci aspre critiche... ci vergognavamo un po' della nostra presunzione. Io soprattutto... credermi capace di scrivere! Temevo un cenno di disappunto da parte sua. E invece Vale rispose che le pareva una buona idea... “ma di che tratterà?” chiese infine incuriosta.



Spiegai a Valentina la trama e rimase perplessa. Poi cercò di capire cosa tramasse Nets ma rimanemmo entrambi nel dubbio per un po’ di tempo. Era talmente testardo che non saremmo riusciti a cavargli un ragno dal buco neanche a pregarlo in ginocchio... quindi desistemmo. Pur non sapendo cosa fosse venuto in mente a Nets, la cosa mi fece piacere: ci stava già lavorando su con la mente.

Stavo sognando ad occhi aperti oppure avevo scoperto qualcosa che il destino mi aveva riservato fino allora? Mi rilassai sul lettino a pancia in giù a farmi riscaldare dal sole. Il vento mi accarezzava i capelli e mi sussurrava nelle orecchie: è arrivata l'ora del cambiamento! questo è un nuovo mondo che si affaccia nella tua vita... adesso, non ti far sfuggire l'acqua tra le mani!



Le giornate estive continuarono così per un po’. Le mie ferie estive finirono ed io rientrai al lavoro con una sempre più forte sensazione di angoscia nel pensare che avrei dovuto sopportare ancora a lungo quella situazione. Anche se si affacciava all’orizzonte la via di uscita, come il sole che sorge, essa era ancora solo un sogno.

Incominciai a lasciare l'ufficio presto per godere la vivacità di mia figlia, trovando serenità momentaneamente attraverso il suo affetto. “Si vive una volta sola” pensavo, e quindi dovevo fare il possibile per non perdermi gli anni più teneri di Veronica. Avevo deciso che era ora di cambiare la mia vita. Volevo ardentemente pensare in maniera costruttiva per trovare il modo di sfogare la mia fantasia, sentirmi entusiasta della mia vita ed applicare la mia inventiva evitando di continuare a ridurmi semplicemente in un ”vegetale” che riceveva ordini.



Il nostro progetto andò avanti, vedendoci spesso la sera a casa mia.

Una sera Nets mi disse:

“Ti prego, qualsiasi cosa possa mai succedere tra di noi, non facciamo mai in modo che non si realizzi questo nostro sogno. Non dobbiamo permettere a nessuno di impedirci di pubblicare questo nostro libro. Promettimelo.”

Ed io promisi.

§

































































V A L E N T I N A











1







Durante il periodo nel quale conobbi Nets, io e Valentina avevamo ritrovato parzialmente una certa intesa...ormai quasi definitivamente persa.

Come molte coppie, che avevano problemi di convivenza, pure noi non facevamo eccezione, ma per me era stato un vero banco di prova. Essendo la seconda volta che mi andava in frantumi un matrimonio, avevo accettato compromessi che in età meno matura avrei totalmente rifiutato. Eravamo così riusciti a mettere da parte la gelosia, il possessivismo e convivevamo separati in casa, di comune accordo, per il bene di Veronica con ciò che era rimasto del nostro grande amore: il rispetto reciproco ed un fortissimo affetto, che da parte mia si poteva chiamare amore.

Assaporavo il fatto di averla ancora al mio fianco assieme alla piccola, il ché attutiva il colpo di averla persa come moglie. Tornammo a diventare amici, cosa che si era persa nel percorso matrimoniale. Imparai a sopportare il pensiero di essere rifiutato compensandolo con la sua bontà d'animo, il suo spirito ribelle, la sua genuina amicizia.



Un giorno, mentre rovistavo tra alcune scatole rimaste in soppalco, avevo trovato una vecchia lettera che non le avevo mai consegnato. Era stato uno sfogo, puro e semplice, dei tempi infelici. Sapevo che non gliel'avrei mai fatta leggere tanto che non vi era neppure l'intestazione “Cara Valentina” o “Amata moglie mia”.

Era partita per la Sicilia con la bambina per l’intera estate ed io ero rimasto solo. Era uno dei tanti tentativi per valutare quanto ci mancassimo a vicenda e l’estate era una bella e lunga prova da superare.

Iniziava direttamente così:



“Tutto è impregnato di te. Ti vedo ovunque. Sento dentro di me il tuo profumo; la tua presenza.

È difficile dimenticare quegli sguardi innamorati dei primi tempi; quelli in lacrime di quando partivo. Ora il tuo sguardo è spento, indifferente. Sei diventata cieca e non mi vedi più. Io ti parlo, ti urlo...ma non mi senti. Ti tocco ed è come se tu fossi etere. Non riesco più a trattenerti, a sentirti mia. Mi sfuggi. Mi lasci solo, in questa nostra casa. Mi togli le uniche cose al mondo che desidero: te e Veronica.

Mi sto sforzando ad uscire da questa morsa che mi attanaglia il petto. So che è inutile. So anche che, incontrando un'altra, non sarebbe mai possibile dimenticarti, non pensarti, non desiderarti vicina a me.

Ti amo ancora e sento il mio cuore avvolto dalla nebbia... senza suoni. Solo i battiti che soffrono solitari, e rimbombano nel mio petto dicendomi che ti ho persa, forse per sempre.

Vorrei morire. Ho pensato che sarebbe meno crudele, ma i miei figli mi trattengono in questo mondo. A che serve recriminare gli sbagli fatti? Non si accenderà proprio più quella fiamma che ci ha divorati di passione?

Perché sei cambiata, bambina mia? Perché mi stai lasciando?...

Così non si poteva più andare avanti. Dio solo sa quanto ho anelato sentire il tuo desiderio di amarmi, di invecchiare quotidianamente con me!

Pensare di perderti mi lacera il corpo intero e mi lascia senza fiato, con gli occhi colmi di lacrime. Non dirmi che è inutile sperare; una pianta non fiorisce soltanto una volta e poi muore.

Ti aspetterò sempre per rifiorire insieme a te... Ogni cosa ha un inizio ed una fine ma il nostro amore è durato troppo poco. Anche la morte è la fine del nostro ciclo vitale ma il nostro amore non può morire. Non deve!

Ti amerò sempre, mia dolce bambolina bionda dagli occhi verdi come il mare.

Morirò per te, ed in te rivivrò una nuova vita.”



Le lacrime mi affiorarono agli occhi. Non ricordavo più quelle parole, quella disperazione. Mi si riempì il petto di angoscia e di una gran voglia di gridare: Perché?!



Valentina mi aveva adorato, forse troppo, Era giovane ed io le apparivo quale l’uomo maturo, sicuro di sé. Si invaghì di me. Mi pose però sopra un piedistallo e si infatuò talmente di un’immagine... ahimè! l’accorgersi che la realtà fosse diversa fu proprio tra le cause della rottura dell’incatesimo che lei stessa aveva creato. Ci furono periodi d’incomprensione e le accuse che mi rivolgeva contro, quali di essere “cambiato” mi parevano prive di fondamento. Soltanto col tempo capii (o almeno me ne davo una ragione) che non era un mio cambiamento a farla disinnamorare bensì la visione di ciò che realmente ero a differenza di ciò che ero apparso essere.

Questo aveva quindi creato una rottura nel nostro idilio. Inoltre, credendomi cambiato, non era più disposta a “venirmi incontro” in tutto e pretendeva che io facessi degli sforzi per capirla ed assecondarla. Ciò sarebbe stato normale in qualsiasi coppia se fatto subito, ma così all’improvviso mi parvero solo impuntature senza senso ed il cambiamento lo notai io in lei.

Insomma, la vita quotidiana era diventata un inferno e spesso litigavamo per delle sciocchezze oppure non ci si parlava più e si guardava la televisione per evitare discussioni.

Come ne eravamo usciti? Semplicemente affrontando il problema svariate volte fino ad urlarci addosso le nostre angosce. Alla fine decidemmo di chiudere ed andare a vivere per conto proprio.

Il 31 gennaio di quell’anno risolvemmo definitivamente l’argomento. Eravamo ormai stanchi e ci arrendemmo all’evidenza che il nostro matrimonio era un fallimento o quantomeno non eravamo più in grado di gestirlo.

La bimba dormiva ed io ero molto amareggiato per tutti i discorsi che si eran fatti e che non si riuscisse a venirne a capo. Non ci si guardava quasi più in faccia. Io cercavo di tirare a galla l’argomento e lei mi rispondeva che la ossessionavo. Si incazzava, la situazione peggiorava e così per altri tre-quattro giorni si ritornava al mutismo. Il minimo indispensabile per sopravvivere.

Quella sera ero proprio avvilito. Non mi ero risposato per la seconda volta per finire in un rapporto di questo genere. Bisognava decidersi: o si ricominciava o si chiudeva. Così non poteva andare!

Con dolcezza dissi alcune semplici parole... sincere ma schiette.

“Io così non ce la faccio più ad andare avanti”

“Neanch’io” Fu una risposta immediata, quasi se l’aspettasse.

“O facciamo veramente qualcosa oppure è meglio separarci... Vedi, io ti amo ma così non posso proprio accettare di vivere. Io dalla mia donna voglio avere tutto: l’amore, l’amicizia, la passione; che sia la madre dei miei figli, la compagna di vita... che invecchi insieme a me... Tu adesso sei solo la madre di mia figlia e il resto è svanito.”

Lei mi ascoltava in silenzio, cupa; con le lacrime agli occhi.

“Tu sei cambiato... Dio solo sa quanto ti voglio bene e quanto mi sforzi ogni giorno di salvare questo rapporto...”

“Io credo... credo di essere sempre me stesso. Purtroppo a te non piace. Vedi, credo si sia rotto “l’incantesimo” che ti legava a me... ma questo ormai non possiamo ricrearlo. Io voglio soltanto decidere, perché così non resisto. Non ti ho neppure per amica; non parliamo più, mi guardi con astio, mi rispondi in cagnesco... io posso anche accettare (seppur soffrendo) che il nostro rapporto sia finito -sebbene io provi sempre più amore per te- ma almeno mi fossi vicina col cuore!”

Ci fu un attimo di pausa. Per me era tremendo doverle dire ciò che stava decretando la fine dell’illusione. Ma non potevo veramente andare avanti a quel modo.

“Io devo mantenere il mio equilibrio psicofisico... non ce la faccio più a starti vicino, amarti e non fare l’amore con te. Però, nello stesso momento, non ti voglio tradire...”

“Tu hai ragione...lo so che così non si può andare avanti. Credimi però, io ti voglio un bene da morire...” Le lacrime incominciarono a sgorgare ad entrambi.

“Cosa possiamo fare per salvare... questo matrimonio?” chiesi ormai svuotato di ogni energia, accettando passivamente tutto ciò che mi sarebbe stato inflitto di lì in poi. “vuoi separarti da me o possiamo convivere pacificamente sotto lo stesso tetto per Veronica... Per noi stessi...?”

La decisione fu univoca. Dopo lungo parlare, quieti ed emozionati, tristi e rassegnati ma felici anche di non aver distrutto tutto e poter realizzare che ancora ci volevamo bene, l’unica soluzione era andare a vivere entrambi per conto proprio. Nel frattempo che avessimo trovato le case, avremmo provato a vivere da separati, ma sotto lo stesso tetto. Seppur cosa molto difficile, avrebbe garantito ad entrambi la quotidianità con la propria figlia ed avrebbe attutito l’impatto della separazione quando si sarebbe verificata. Era forse un modo codardo di affrontare la realtà e mi aggrappavo alla speranza di recuperarla in un tempo futuro. Ciò mi fece calmare l’angoscia con la quale convivevo ormai quotidianamente da molto tempo. Ci abbracciammo teneramente e quella sera dormimmo mano nella mano.



Ma col tempo, la situazione non migliorava. Eravamo separati, teoricamente. Di fatto io speravo sempre di recuperare il rapporto e mi consideravo sempre suo marito. Avevo però intuito che qualora le avessi fatto capire questa mia presunzione, sarebbe precipitata la situazione, col rischio di impaurirla e farla andare via definitivamente. Quindi uscivo la sera nel vano tentativo di rifarmi delle amicizie e forse di trovare un passatempo per calmare i miei bollenti (che dico! ormai “roventi”) spiriti : una donna che mi facesse dimenticare Valentina, la quale era tornata alla solita apatia ed insofferenza pericolosa, che poteva portarmi all’improvviso a rimanere solo facendomi precipitare. Parlava sempre più di rifarsi una vita, e non escludeva nel futuro di avere altri figli. Sperava di trovare lavoro ed andare a vivere altrove... tutto ciò con molta disinvoltura ed ingenuità.

Io uscivo, e lei, come risposta mi diceva che le stava bene così, che in quel modo riusciva a sopportarmi meglio. Fu così che a quarant’anni mi ritrovai a frequentare discoteche, pub, amicizie superficiali, strane e di ogni età. Ed a ritrovarmi sempre più solo, sempre più insicuro e sempre più conscio della mia età, della mia bruttezza e del mio ormai declino fisico e psicologico.

La cosa che mi turbava di più era quella di tornare a sentirmi depresso come la prima volta, dopo la separazione. Sentirmi fallito, brutto. Ero ingrassato e non sapevo come vestirmi. Quei maledetti dieci chili in più non mi permettavano neanche di sentirmi a mio agio. Stavo ore a provarmi e riprovarmi i vestiti e spesso dovevo inventarmi qualcosa per rimediare un po’. Fu in quell’epoca difatti che iniziai a pettinarmi i capelli all’indietro con la schiuma e la lacca; che mi feci crescere il pizzo per parere più giovane. Spesso però mi sentivo buffo, fuori moda e ridicolo.

Di amicizie ne facevo tante ma quasi tutte prive di valore. Perlopiù conoscenze occasionali e di comodo (soprattutto da parte loro) che alla prima buona occasione si rivelavano per ciò che erano, e finivano.

Mi sentivo sempre più solo ed isolato e ciò mi faceva tornare da lei ancor più avvilito. Mi chiedevo se fosse stato giusto (seppur per non rovinare il salvabile) agire a quel modo. Mi chiedevo se non fosse valsa invece la pena tentare di recuperare il terreno perso -conscio del fatto che non avrei mai potuto barattarlo con altre situazioni-.

E se fosse mai capitato di trovare un’altra che avesse potuto momentaneamente appagare i miei fuochi e placare le mie sofferenze? Non mi pareva accettabile pensare di gettare via impunemente un sentimento ed un amore così grande come il suo senza lottare per esso. Se ormai l’avevo persa, ed era irrecuperabile, tanto valeva tentare l’impossibile.

Uscendo e fingendo di essere tranquillo, di tanto in tanto ci riavvicinava, e qualche volta succedeva anche che facessimo l’amore, e ciò riportava la mia mente a drogarsi di illusioni.

Difatti, dopo averlo fatto si chiedeva sempre se sarebbe ricominciato tutto d’accapo l’indomani. “Non vorrei che tu ti illudessi che tornerò da te soltanto perché stasera l’abbiamo fatto” diceva. Ed il giorno dopo era fredda e distaccata come se niente fosse accaduto. Anzi, qualora io fossi stato più affettuoso del solito, lei si scaldava subito e mi rinfacciava: “Vedi!? lo dicevo io che non avresti capito e te ne saresti subito approfittato!”



Ci fu una sera particolarmente meravigliosa in mezzo a tale trambusto di sofferenza ed incertezza che mi parve un’oasi nel deserto. Non riuscivo ad addormentarmi e così mi ero messo a guardare il cielo stellato dal balcone. Valentina era crollata dal sonno.

Io, come al solito anelavo toccarla, baciarla, fare l'amore con lei. Sapevo che non dovevo chiederglielo; i patti erano stati chiari: se volevamo convivere ancora potevamo farlo solo da buoni amici, niente sesso, niente pretese: “Altrimenti me ne vado” diceva. Ma erano alcuni giorni che stavamo meglio e più vicini del solito. Quella sera mi accarezzò il viso, poi si addormentò, abbracciandomi teneramente. Una volta addormentata mi avvinghiò con la coscia . Io le diedi un bacio tenero sulla fronte trattenendo una lacrima. L'abbracciavo e accarezzavo i suoi capelli. Poi, accertatomi che stesse nel mondo dei sogni, le accarezzai la coscia... poi il fondo schiena. La desideravo da morire. Mi sentivo come un adolescente che ha le prime forti sensazioni davanti alla donna che ama. Da quando il nostro rapporto andava meglio e avevamo ricominciato a volerci bene, io la riempivo di attenzioni e vivevo adorando ogni suo gesto, ogni sua parola. In quella situazione, però non ce la facevo proprio. Toccarla, sentire la sua pelle morbida, il suo fiato addosso, il suo profumo di femmina qual era, e sapere che non era più mia, che non mi amava e non mi desiderava più come una volta ... ma che era solo un'amica... Così era veramente dura.

Mi alzai sgattaiolando silenziosamente dalla sua dolce presa e andai seminudo in terrazzo. Era metà agosto: il periodo in cui le meteoriti sfiorano la nostra atmosfera. Mi dicevano di guardare nella direzione dell’ Orsa Maggiore per vedere una stella cadente. Ma dal mio terrazzo non si vedeva per colpa dei tetti troppo vicini. L'antenna risplendeva illuminata da una splendida luna piena e sembrava far parte integrante di una navicella spaziale . Mi sentii un astronauta che vagava nello spazio. Fuori l'aria era freschissima. Quasi fredda.

“L'estate inizia ad allontanarsi”, pensai. E restai lì, immobile per un po’. Gli occhi fissavano Venere. “Aiutami tu, Dea dell’Amore!” sospirai.

All'improvviso mi parve di vedere qualcosa in movimento... di là, alla mia destra. Ma appena mossi lo sguardo non vidi nulla . Questione di frazioni di secondo ed il flash era sparito. Successe altre due volte senza che mi restasse certezza di aver visto una stella cadere... e di aver potuto esprimere un desiderio.

L'anno precedente ne avevo vista una ed avevo espresso il desiderio che tutto potesse tornare come una volta. Ciò non si era avverato, e questa sera speravo potermi rifare, ma dopo un bel po’ mi stancai e tornando a letto mi rimisi sotto le lenzuola.

Valentina dormiva profondamente. Aveva sempre avuto il sonno pesante.

Ancora non riuscivo a capire cosa fosse stato a farla disinnamorare. Lei insisteva a dire che eravamo diversi e che avevamo due caratteri opposti. Ma anche quando ci amavamo alla follia eravamo ciò; eppure il rapporto funzionava! Non mi capacitavo e pensavo... forse quella volta che mi ero rifiutato di fare un figlio con lei... Sì. Probabilmente ciò aveva rotto l’incantesimo. Ma io lo volevo un figlio! Soltanto non subito. Ma lei mi amava... voleva raggiungere l’apice del nostro amore generandone il frutto! Ed io non avevo capito niente! Adesso mi ritrovavo un matrimonio alle soglie del fallimento (se non già fallito) ed un dolore immenso da gestire.

Passò un po' di tempo e lei si avvinghiò addosso nuovamente. Il suo alito accarezzava il mio collo e una sua mano si appoggiava sul mio petto. Mi stavo eccitando maledettamente e sapevo che avrei potuto trastullarmi col suo corpo senza che si svegliasse come tante volte durante il periodo critico, mentre dormiva lei diventava mia. Mi inventavo giochi erotici e facevo del suo corpo quasi tutto quello che volevo senza che lei si accorgesse di niente l'indomani.

Mi masturbavo e piangevo. Sapevo di averla persa. Ci saremmo divisi se non riuscivamo a convivere da amici.

Mi continuavo ad eccitare e mi facevo accarezzare dolcemente dalla sua mano fatta scivolare giù lentamente... Col cuore in gola ed il fiato sospeso, strusciavo me stesso sulla sua coscia soave e liscia. Soffocavo il respiro mentre le baciavo delicatamente le labbra semi aperte.

Le leccavo appena, le mordevo lievemente, senza svegliarla. Era teneramente accoccolata tutta su di me, semi nuda, mentre la accarezzavo e palpavo con veemenza quasi stessi avendo con lei un amplesso vero e proprio.

Durò una buona mezz'ora. Era una dolce tortura. Volevo che si svegliasse per fare l’amore ma temevo in una sua reazione negativa che potesse peggiorare la situazione. Godevo ad accarezzare il suo corpo con il mio, ma soffrivo immensamente a non poter avere il suo amore; la sua mente.

Improvvisamente -forse disturbata da tanto mio agitare- fece un sospiro forte e seppur fossi rimasto immobile, si mosse.

Aprì lievemente gli occhi e si ritrovò assonnata e rintontita in quella posizione, addosso, con tutto me avvolto dalla sua mano.

La strinse; la mosse; e le sue labbra si incontrarono con le mie, scatenandosi in un groviglio di baci dalle sensazioni ineguagliabili. Sentivo il suo ardore rinascere; tutto il suo amore, assopito da un maleficio, risvegliarsi. La penetrai dolcemente e fino in fondo, spingendo ad intervalli lunghi, lenti... profondi. La strinsi forte a me e piansi. Avrei voluto dirle quanto l’amavo; che ero disperato senza di lei... che mi sarei suicidato senza il suo amore.

Spinsi il mio membro fino a farla gemere di piacere. Durammo così, incatenati fino in fondo per qualche minuto interminabile... poi lei iniziò a fremere... fin che l'orgasmo non ci travolse.

2





Mamma e figlia erano sdraiate sul lettone, accoccolate l'una sull'altra.

Il sole picchiava forte e filtrava dalle persiane accostate della camera da letto riscaldando l'aria già calda e soffocante.

“...dai... La vuoi sentire allora, la favoletta? “

“sci, sci...”

“...C'era una volta un coniglietto, che passeggiando per il bosco... incontrò un fiorellino... piccolino... rosso. Appena lo vide disse: ciao fiorellino! “

“No mamma. Muaà muaà...tetta iellino!”

“Va bene... gli dà prima un bacino e gli dice: come stai?”

Lei ascoltava attentamente con gli occhi sbarrati e mordicchiava il ciuccio con foga. Dolcemente rannicchiata di lato, col braccino sotto la testa imitando Valentina, si faceva accarezzare dolcemente il sederino coperto solo da una mutandina decorata con dei fiorellini variopinti.

Stava tranquillamente sdraiata nell'attesa che il sonno pomeridiano la corteggiasse.

E Valentina continuava dolcemente ...”Ho bisogno di coccole... mi canti una canzoncina?”

A quel punto canticchiava un motivetto conosciuto: “...Lo sai che i papaveri...”

“ No a Iaia! mamma, tetta a ino!...” disse sbarrando gli occhi e togliendosi il ciuccio di bocca terrorizzata potesse essere la canzone per invogliarla a fare la ninna nanna.

“non ti preoccupare Veronica, questa è la canzone che il coniglietto canta al fiorellino... non è per te!”

Tranquillizzata, si rimetteva il ciuccio in bocca e continuava ad ascoltare con gli occhietti semi chiusi accoccolandosi ancora.

Valentina allora sapeva che continuando a cantare aveva buona probabilità di riuscita. Passavano così dolcemente pochi minuti e gli occhi si chiudevano totalmente... Altri pochi minuti e cessava di ciucciare.

“È fatta. Adesso finalmente dorme.” pensò. La sua tenera boccuccia si apriva lentamente ed il ciuccio cadeva, al lato del mento.

Rimase così: immobile. Solo il suo petto si gonfiava e sgonfiava a ritmi regolari, lenti. Le sue palpebre chiuse mostravano la delicatezza della sua pelle solcata da lievi venoline azzurre. Il respiro diventava sempre più lento, affannoso.

Le sue coscette rigogliose e i suoi piedini rigonfi di ciccetta le facevano dire: “Che bei piedini che hai Veronica! mi viene voglia di mangiarteli!”.

Spesso, Valentina ed io li mettevamo in bocca, li mordicchiavamo e li baciava-mo teneramente. Dormiva che sembrava un angioletto... e pensare che quando era sveglia era una gran birbante!

“Iaia, birba!” diceva spesso orgogliosa e rideva... un sorriso che sembrava talvolta una smorfia, arricciando il nasino e socchiudendo gli occhi con i dentini di fuori.

Valentina giaceva vicino a lei, silenziosa e pensierosa, ma serena. Era la sua gioia di vivere. Era sicuramente l'evento più desiderato della sua vita. Si sarebbe uccisa per lei...



Quando l'aspettavamo ed il pancione cresceva le giornate passavano nell'attesa del grande evento. Le parlavo, l'accarezzavo e tentavo di sentire la spinta dei suoi piedini. Che bello quando la pancia si spostava improvvisamente! e quando sentivo dei rumori strani (che altro non erano gli umori liquidi) pensavo fossero i movimenti di quell'esserino che tanto anelavo vedere vivo.

Che aspetto avrebbe avuto o a chi si sarebbe somigliata? Ed il carattere?

Si agitava spesso, a sera e non voleva far dormire Valentina, che stanca di portare il suo pancione in giro se ne stava sdraiata spesso sul divano... guardando la televisione, pensando al domani. Sentivamo come si agitava all'udire la musica...si: proprio musica. “Verrà su una creatura canterina” dicevamo.

Non sapemmo se sarebbe stata maschio o femmina fino alla fine del settimo mese, quasi l'ottavo.

Veronica oppure Emanuele.

E così quel giorno arrivò: l'emozione ci pervadeva tutto il corpo. Tentavamo di scoprire dall'ecografia qualche segnale particolare... ma non riuscivamo a capire niente. La ginecologa diceva : “Sono ormai quasi certa... Sì. Al novanta per cento, è femmina!...” E così fu.

Veronica scese dal cielo, da quella stellina che tutti guardiamo al farsi sera, per dilettare con i suoi sorrisi e le sue risate le nostre esistenze e ricompensare il nostro amore.



All'epoca scrissi questa lettera:

“ Cara Veronica, ti stiamo aspettando. Oggi ormai hai compiuto nove mesi nel grembo materno e quindi sei (speriamo) fuori pericolo. Chissà se un giorno ti ricorderai dei discorsi che ti abbiamo fatto mentre eri nel pancione e se sentirai un feeling quando mi prenderai per mano. Quella tua piccola manina stringerà quella grossa e ruvida di tuo padre che ti palpava mentre tu spingevi il corpicino o i tuoi piedini contro il mondo esterno attraverso la pancia della mamma.

Vorrei tanto trasportarti nel mio corpo e soffrire il dolore del parto per sentirti più mia. Noi papà siamo sempre un po’ esclusi dalla nascita dei propri figli ed è forse per questo motivo che ci sentiamo un po’ più distaccati. Penso però sia nostro dovere assistere al parto e Dio solo lo sa quanto per la stragrande maggioranza di noi sia difficile come lo sarà per me! Ma veramente è il mistero della vita che ci affascina e ci rende invidiosi di non avere il potere di riprocreare. La gravidanza era ammirata sin dalla preistoria e lo testimonia una famosa scultura neolitica, la Venere di Willendorf. Noi uomini adoriamo il ventre che si gonfia di vita! Abbiamo paura e allo stesso tempo rispettiamo il ruolo ed il dono divino della riprocreazione. E non solo questo. Io vorrei tanto togliere il dolore a Valentina anche perché la vedo così giovane e coraggiosa... penso che solo il suo grande amore per un figlio possa averla fatta sopportare tutte le sofferenze che ha avuto fino adesso.

Forse anche l'amore che prova per me. Altrimenti non avrebbe avuto il desiderio di averlo con me...”

Mi sentivo più maturo e desideravo assistere al miracolo della vita.

“...Veronica, ti voglio vedere nascere. Si vive così poco e male che non voglio più privarmi della gioia di vedere la vita sbocciare. Voglio che Vale si senta fiera di suo marito che l'assiste (anche solo moralmente) e si appoggi a me. Voglio che questo evento ci unisca di più. Voglio che lasci un segno indelebile nella nostra memoria.”

Avevamo la carrozzina. Era tutta verde pisello a fiorellini gialli ed era proprio carina. La guardavo e mi intenerivo pensando che trascorsi pochissimi giorni se non l'indomani stesso avrei potuto vedervici dentro un piccolo esserino.

Ero pronto alla mia nuova famiglia, a crearmi un futuro. La mia vita l'avevo modificata (una delle famose variabili) nel momento in cui mi ero separato dalla prima moglie.

Ma era stato proprio il fortissimo attaccamento al valore dell'amore che mi aveva fatto tentare nuovamente, con Valentina. Ciò che avevo sentito e provavo ancora per lei era meraviglioso. Dopo un lungo periodo di sofferenza avevo finalmente ritrovato la serenità e tutta quella voglia di amare che mi mancava da anni.

Ero venuto in Romagna pensando di spassarmela con una donna diversa ogni sera ... ed invece... rimasi colpito dai suoi occhi verdi e trasparenti. I suoi discorsi intelligenti e maturi, pieni di speranza, di voglia di vivere... di ritrovare l'amore.

Reduce di mille amarezze e di un matrimonio fallito, in quel tempo asserivo che era meglio stare con un piede su più staffe per evitare di soffrire.

“Così non ti attacchi mai ad una sola persona” dicevo. E lei ribatteva dicendo che il mio era un discorso assurdo, che era solo paura di vivere e di provare. Mentre discutevamo come due vecchi amici l'attrazione aumentava; si insinuava nelle sue labbra... nel suo sguardo, nelle sue mani che gesticolavano. Era la prima volta che avevo davanti a me una donna che mi attirava da morire e non mi balenava alcun pensiero erotico in testa. Osservavo il suo comportamento femminile e raffinato, ascoltavo attentamente i suoi discorsi.

Aveva classe. Erano soltanto passati sette giorni a Ravenna ed il destino mi presentava su un piatto d'oro la bella fanciulla dai capelli biondi.



Dopo lunghe peripezie per il divorzio, un anno e mezzo dopo, era diventata mia moglie. La mia dolce ed adorata moglie.

E mentre aspettavo il frutto del nostro amore, scrivevo...

“Veronica, ti voglio con le treccine bionde e gli occhi di tua madre. Voglio che tu sia socievole, simpatica, sveglia ed affettuosa. Ti voglio ruffiana con me, voglio tutta la tua attenzione ed essere importante nella tua vita. Voglio che la tua presenza ci attanagli tutti e tre in una dolce morsa di amore infinito e deliziosamente tenero.

Ti amo dal primo momento che ti ho saputa viva e adesso non ce la faccio più dalla voglia di abbracciarti.”





3





Del rapporto tra me e Valentina, Nets se n'era fatto una sorta di Santa Crociata. Pieno di ardore religioso, considerava “assurdo” il mio comportamento nei confronti del matrimonio lasciato andare alla deriva.

Io gli spiegavo invece che si restava in buoni rapporti proprio perché non la infastidivo col sesso e non le chiedevo di fare la moglie.

Stavamo insieme per nostra figlia, fintanto che lo avremmo desiderato. Niente più. Ma sapevamo entrambi che oltre ad un affetto profondo ed una grande stima reciproca, era proprio quella stellina di Veronica che ci teneva ancora uniti sotto lo stesso tetto.

A parte questo però io sentivo crescere in me una frustrazione incontenibile nel non sentirmi più amato in quanto "uomo" e diventavo sempre più affamato di sesso. Sapevo che l'averla cercata e stuzzicata sarebbe stato pericoloso ma avevo anche bisogno di trovare il mio equilibrio e non sentirmi rifiutato.

A Nets sembrò assurdo, e cercava di capire come mai non funzionasse il nostro rapporto, partecipando talvolta a nostre discussioni, litigate e serate decisamente negative. Piombava ormai all'improvviso, di sera durante la cena, la mattina... il pomeriggio. Anche quando non c'ero... per carpire qualche segreto a Vale e potermi aiutare. Un paio di volte gli chiesi anche di darmi una mano a convincerla di far pace con me e lui non si negò.

Nets ci era grato, perché diceva che grazie a noi, era tornato ad essere razionale. Gli avevamo fatto vedere l'inutilità di restare a sognare ad occhi aperti un rapporto impossibile, ed esortandolo a ricercare questa sua fiamma e magari riprovarci, lui l'aveva affrontata e definitivamente lasciata, anche nei suoi sogni. Si accorse che lei era cambiata, e che si era innamorato di qualcuna che ormai non esisteva più. Si autodefiniva un uccello che si era finalmente liberato dalla trappola di un lago ghiacciato che lo teneva prigioniero nell'anima e nella mente, e si sentiva leggero e felice adesso che aveva ritrovato se stesso e perso Paola.

Teneva compagnia alla ragazza del suo "miglior amico", il quale la trascurava, la tradiva, la derideva: e lui la consolava, la accompagnava ovunque lei volesse... insomma, noi pensammo che le stesse dietro.

Lui sorrideva come era solito fare con un’aria strafottente e di raggiro. Non rispondeva mai alle nostre domande provocatorie. Scherzava con quello sguardo un po’ tonto e adolescente.

Ma incominciai a vedere un lato di Nets sconosciuto fino ad allora.

Cosa sperava che accadesse? Forse pensava di approfittare della situazione facendo il buon amico? Non ritenevo che uno come lui potesse tramare così meschinamente alle spalle del miglior amico. Ma alla fine ci accorgemmo che avevamo avuto ragione.

Nets le stava dietro e cercava in tutti i modi di farle capire che l'altro la tradiva, con l'unico scopo di carpirla tutta per se.

La cosa ci lasciò un po’ di stucco. Lo avevamo creduto così puro di spirito che la cosa non ci piacque. Lo lasciammo comunque perdere poiché, pensammo che tutto sommato fossero affari suoi.





4





Una sera Nets arrivò, come di consueto, sorridente. Quella sera però era più radioso del solito. Alla mia domanda di cosa gli fosse accaduto (poiché ormai imparavo a conoscerlo), mi allungò trionfante un foglio dattiloscritto.

Lo guardai, presi il foglio in mano con aria stupita, poi iniziai a leggere:



“All'improvviso lei aprì il cofanetto e le due palline della lunga vita..."

“Ehi Nets!” esclamai radioso “hai cominciato a scrivere il nostro libro!”

“leggi, leggi. Questo è quello che avevo pensato per il prologo...”

Lessi ancora : "All'improvviso lei aprì il cofanetto e le palline della lunga vita rotolarono giù per il pavimento fino al cortile, l'una accanto all'altra, con moto uniforme, emettendo quei suoni cristallini che la magia cinese aveva donato loro.

Quel tintinnio leggero richiamò l'attenzione dei miei sensi che, estrapolando quella melodia polifonica mi riportarono alla cruda realtà, dalla quale da troppo tempo ero fuggito, carpendone suoni simili nel colore ma diversi nell'impasto. Essi si spandevano insieme tutt'intorno, compatti, sorreggendosi l'uno contro l'altro, in un continuo e reciproco richiamo ma ciascuno fiero della propria ed irriproducibile diversità".

“Ma...è bellissimo!” esclamai.

Nets sorrise fiero di quel commento.

“Ma chi è colei che apre il cofanetto?” chiesi.

“Veronica!” rispose trionfante Nets.

“Vale!” chiamai immediatamente. Valentina arrivò di corsa dalla cucina, e sorpresa di vedere Nets che non aveva sentito arrivare, chiese cosa fosse successo. Le rilessi il paragrafo e lei diede pure la sua piena approvazione. Nets allora ci spiegò che le “palline” erano i due amici, cioè noi, e che il loro suono “complementare” lo aveva risvegliato dal suo lungo sonno, dall'amore inutile e bugiardo di Paola. Era soddisfatto del fatto che fosse piaciuto e continuò:

“quando voi mi avete detto di riprovarci con lei, avevo paura. Penso fosse la paura di vedere la realtà, che mi faceva ancorare a quel sogno. Proprio per non scoprirla! Allora, quando ho capito che così però ero infelice, ho deciso di ascoltare il vostro consiglio e l'ho chiamata.”

“Bene!” esclamò entusiasta Valentina che ormai si toglieva il grembiulino da cucina e si asciugava le mani. Poi, accendeva una sigaretta e chiedeva come fosse andata la telefonata.

“Male.” disse Nets sempre più sorridente.

“Ma come... male?” chiese delusa Valentina con aria preoccupata.

Nets ci spiegò allora che era contento. “Si è rotto l'incantesimo! Ho praticamente visto in faccia la realtà. È stato bellissimo sentirsi finalmente leggeri... quella situazione irreale che si trascinava a lungo, ormai si era deformata, schiacciandomi col suo peso... mi deformava il viso... la testa. Mi ero innamorato di qualcuno che non esisteva più!”

Io e Vale ci guardammo stupiti. “Mah! contento tu!...” dissi io, e lui aggiunse: “Grazie a voi, sono riuscito a ritrovare la mia serenità assieme alla mia razionalità. Il brano spiega anche la nostra amicizia, la nostra compattezza...”

Le sue parole mi commossero e ci abbracciammo.



§







































































































P A R T E S E C O N D A





































































































I L F O R E S T I E R O

















1







Lo sfondo era perfetto: qualche cavallo e alcune mucche che brucavano l'erba ; l'aria tersa del mattino, ed il sole che si affacciava dal suo lenzuolo azzurro-violaceo con aria assonnata. Le montagne verdeggianti tutt’intorno l'appennino tosco-emiliano dipingevano il panorama come qualcosa di suggestivo che non poteva mancare a contorno a ciò che mi stavo accingendo a fare.

Dissi a Nets di inquadrare le montagne e soprattutto lo stagno, che si inseriva suggestivo dentro la cornice di questo bel quadro. Poi scegliemmo per iniziare la registrazione un angolo nascosto nella la boscaglia dove sgorgava una fonte naturale. Il gorgoglio dell'acqua mi parve suggestivo e mi sedetti su di una pietra respirando l'aria a pieni polmoni. Mi soffermai qualche secondo sulle montagne ed i loro riflessi turchini, e sovrastati dalla luce di un timido sole appena sorto (sull'alba che ci sovrastava). Dopo aver fatto una lauta colazione che era ancora buio, eravamo pronti e non vedevamo l'ora di incominciare.

Gli avevo chiesto di filmarmi per inviare una videocassetta a Juan Bautista. Dopo la recente telefonata da Buenos Aires per farmi gli auguri di compleanno aveva trafitto con un lampo di gioia il mio cuore. Io gli volevo molto bene e nonostante fossero trascorsi già quasi una decina d'anni dall'ultima volta che ci eravamo visti; la distanza ed il tempo non avevano scalfito affatto i miei sentimenti nei suoi riguardi.

Gli ricordai i bei tempi, di come eravamo spensierati ed avevamo tutta la vita davanti. Gli dissi quanto mi mancasse e del fatto che tuttora era rimasto il mio miglior amico.

Mi emozionai. La parte più difficile nel dialogare dopo tanto tempo con un vecchio amico era appunto dire di volergli ancora bene nonostante gli anni trascorsi e la distanza che ci separava.

Gli parlai della sua telefonata, del fatto che mi aveva colto di sorpresa: che alcuni mesi addietro avevo pensato a lui intensamente in quanto non capivo il perché del suo silenzio. Non mi aveva più scritto da due anni ed io avevo allora pensato di inviargli un video. Poi la pigrizia mi aveva fatto rimandare quotidianamente fino ad allora.

“Ho passato alcuni anni critici sia per il lavoro sia per la mia vita personale... come tutti, penso. Adesso però forse inizio a vedere l'alba nuovamente. Ho iniziato a capire che la vita va assaporata lentamente e quotidianamente senza fare troppi progetti. Sai, ho capito che questi si frantumano ogni qual volta una “variabile” si inserisce nella nostra vita, e allora perché preoccuparsi o scervellarsi? Quando mi hai comunicato che forse verrai in Italia fra due mesetti mi hai cambiato il futuro con una di quelle variabilii...”

Poi continuai a raccontargli di Veronica: “E’ stato la cosa più desiderata e bella di questi anni. Volevo tanto una figlia femmina! La volevo proprio così com'è: birichina, ruffianella e affettuosa. Con mio figlio il rapporto non va bene. Lui si è disabituato ad amarmi. Forse non mi ha mai voluto bene, e tutti gli sforzi che ho fatto, da lontano, non sono serviti a nulla. Sua madre lo ha plagiato contro di me in maniera talmente astuta che adesso lui non sente proprio il bisogno di vedermi o telefonarmi. Non credevo nemmeno io, che fosse così semplice. Basta non dirgli le cose positive su suo padre! Poi, i difetti affiorano automaticamente... e le difficoltà che si hanno con la lontananza ingrandiscono i problemi. E seppur abbia capito che non l’ho abbandonato, il nostro rapporto è cambiato. Non è forse plagiarlo contro suo padre, il non raccontare ad un bambino che questi si sacrifica per lui... anche economicamente?. Beh!, adesso non ha voluto passare con me le sue vacanze; ha preferito giocare in un campo Sportivo a pallone con gli amici. E non si è neppure ricordato di farmi gli auguri del compleanno. Tu da Buenos Aires ti sei ricordato, mentre lui neanche un saluto!”

Sentivo dentro me il ribollio del sangue che aveva riscaldato la mente ed i ricordi. Capii che era il caso di smettere e non assillare Juan Bautista coi miei discorsi e ricordi amari. Lui non poteva capire... non conosceva a fondo la mia storia e non sapeva cosa avessi subìto. Spesso si cade nell'errore di giudicare le persone con pochi elementi in mano... per un commento espresso al momento, che senza i dovuti ragguagli, non si riesce a condividere; quindi cambiai argomento per evitarlo.

Gli dissi che non trovavo la nostra amicizia cambiata, che insomma gli volevo sempre bene e che per me era come quel fratello che non avevo mai avuto. Forse mia madre lo perse ancora in grembo perché di fratelli dovevo avere solo lui. Gli ricordai del patto di sangue, di quel giorno in cui da bambini, tagliandomi accidentalmente un dito gli proposi di fare un patto che ci avrebbe resi fratelli di sangue, per l'appunto. Lui si era ribellato a tagliarsi da solo, ma infine lo convinsi.

Poi gli dissi che gli volevo presentare la mia nuova famiglia e per far ciò l'avrei portato con me (col film, intendevo) a Ravenna.

Nets fermò la telecamera.

Passammo il resto della giornata a parlare e a passeggiare attraverso i prati e i filari fioriti di alberi da frutta.

In serata ci incamminammo per ritornare verso la capitale dell'Ex Impero Bizantino, prendendo una strada tra colline ricolme di piante di Kiwi.



§





































2





Di Ravenna portavo il ricordo della bellezza bizantina dei mosaici della Basilica di San Vitale contrapposti allo squallore di alcuni quartieri piatti e scoloriti, con case popolari basse e dai tetti piatti; ed una vigilessa che multava un ciclista su una strada pedonale. Mi mi era rimasto impresso per quanto fosse ridicolo.

Senza saperlo avrei rivisto questa città dopo sette lunghi anni -quasi fosse stato scritto dal destino-, ed avrei trovato l'amore della mia vita.

Fu il trasferimento per lavoro a portarmi in Romagna. Il primo dell'anno ero partito per Bologna, che non avevo mai visto prima; il giorno dopo sarei dovuto approdare alla nuova destinazione.

Bologna era vuota e calma. Avevo trovato la nebbia in autostrada. Avevo addosso tutta l’angoscia di aver lasciato la famiglia, la ragazza, gli amici... il bel tempo. Questa cresceva ad ogni minuto che passava, ad ogni chilometro percorso. Passai la giornata da solo, a fingere di fare il turista. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Quella sera, a cena, bevvi per la prima volta l'Albana dolce e ne apprezzai la sua bontà; mangiai i tipici tortellini al ragù, un secondo che non ricordo, un mascarpone ed il caffè. Pagai salato ed andai subito in albergo. Ero stanco e volevo dormire; volevo annullare i miei pensieri, dimenticare le mie paure.

Iniziavo ancora una volta una nuova vita. Stavolta da solo. Tutta da solo.



L'indomani, dopo aver apprezzato l’architettura della città con una breve passeggiata in Piazza Maggiore e dintorni, andai a fare il colloquio di presentazione col capo del personale della mia banca. Mi intrattenne un membro della Direzione qualunque, in quanto gli altri erano in ferie. Mi fece quattro chiacchere inutili e banali, mi fecero le congratulazioni di rito per la promozione e poi mi esortarono ad andare "di corsa" nella mia filiale di destinazione, dove mi aspettavano.

Salutai così velocemente Bologna e mi diressi verso Ravenna. Pensai alla storia di cui era impregnata: Bisanzio, gli Ostrogoti, i Longobardi... città d'esilio per il sommo Poeta e città di contese tra i popoli nei secoli; gli Estensi ed il Papato ne fecero di guerre per conquistarsela! Ma cosa aveva di tanto speciale questa Ravenna?



I primi tempi non riuscivo né ad orientarmi né a capirne il suo dialetto, le cui inflessioni parevano francesi a volte, arabe in altre occasioni.

Nonostante fosse una piccola città, i suoi "sensi unici" spesso mi facevano sbagliare strada, facendomi ripercorrere parecchi chilometri per ritornare al punto di partenza. Rimasi sorpreso inoltre alle rotatorie, dove la precedenza si dava a chi già era dentro e non come accadeva al contrario in tutta la penisola. Mi spiegarono col tempo che qui già era in vigore la normativa CEE. Le prime volte mi accadeva di trovarmi addosso qualcuno: prima la frenata, poi lo sguardo incazzato... poi l'occhiata alla targa ed infine un "vaffan culo" e via. Certamente i romani non erano graditi e me ne accorsi subito. E pensare invece che a Roma i romagnoli erano sempre stati considerati un popolo allegro, gentile... “Popolo di grandi lavoratori" si usava dire, “e di belle donne”! Godevano della fama di essere belle e disinibite.

Sapevo da mia madre che i romagnoli erano un popolo "sanguigno", perlopiù di origine agricola; persone diffidenti ma sincere. E poi mi decantava la buona cucina della regione: i cappelletti in brodo, le fettuccine al ragù... gli strozzapreti! Che buffo nome... per non dimenticare i vini: il sangiovese, il trebbiano e l’albana.

Mi avevano raccontato un detto nel quale la “Romagna” si riconosceva dal momento in cui al forestiero, che si fermava per chiedere da bere, gli veniva servito un bicchiere di vino... quel Sangiovese che avrei poi imparato a bere con tanto gusto! Col tempo lessi che derivava dal fatto che un tempo, essendo l’area acquitrinosa e quindi malsana (nei tempi antichi i cadaveri galleggiavano nei canali), l’acqua da bere diventava più preziosa del vino!

Altri invece mi raccontarono che ciò succedeva in quanto nell’antichità la maggioranza seguiva solo la via Emilia fondata dai Romani, e poiché nessuno arrivava mai da queste parti della Regione, i forestieri erano poco conosciuti. Quindi, quando se ne vedeva uno per caso, destava curiosità ed interesse, e le famiglie contadine offrivano il meglio di ciò che possedevano per non sfigurare...

Mah! Chissà quale versione era vera! Credevo più alla prima, ma anche quella! D'accordo che Ravenna tanto tempo fa era una landa di terre paludose... con le case sulle palafitte... ma che i "cadaveri" galleggiassero sui canali e sugli stagni mi pareva davvero incredibile!

Scoprii parlando con l’Ing. Colletti, un mio cliente molto colto e gentile, che fino a Bagnacavallo e Lugo vi erano stati i Romani con la Decima Legione, quella che avrebbe arginato la calata dei Barbari. Difatti, con lieta sorpresa, aprendo una cartina della provincia mi mostrò come fosse suddivisa in quadrati uguali. Il mio amico mi spiegò che ogni lato del quadratino che io vedevo erano esattamente 700 metri, cioè il "Miglio Romano". Chiesi come mai codesto "miglio" non fosse di un chilometro, in quanto pensavo alle miglie inglesi (e cioé un chilometro circa), e lui sorridendo asserì che era dovuto alle gambe "corte" dei soldati romani, che facendo mille passi, segnavano il miglio pensando di aver fatto mille metri... ma in realtà si trattava solo di settecento! Sembrava una battuta di spirito, ma pensai avesse ragione. Poi mi spiegò che le strade tortuose lungo gli argini dei fiumi erano di origine medioevale e quindi successive.



Tornando alla loro accoglienza nei miei confronti -esclusi alcuni rari casi- era stata generalmente fredda. Nonostante dicessi di non capire la loro lingua, spesso continuavano a parlare il loro dialetto. In altri casi notavo la loro diffidenza nei confronti del mio accento romano, divenuto inevitabilmente tale dopo tanti anni di permanenza nella Capitale. A volte erano addirittura scortesi mentre guidavo, ma quello è tipico ovunque in Italia. È una forma di campanilismo latente che esiste fra noi e porta ad odiarci senza motivo, persino alla guida del volante. Purtroppo la nostra storia è intrisa di razzismi e sarebbe stato una eccezione altrimenti. Capii col tempo che non tutti erano uguali e che probabilmente mi erano capitati intorno quelli più gretti ed ignoranti.

C'era un collega, che appena arrivato a Ravenna mi disse che noi “Forestieri “ (e si contenne poiché i meridionali venivano chiamati "Marochén" in senso oltremodo dispregiativo) venivamo a rubare il lavoro ai loro figli; inquinavamo la loro città con la nostra presenza ed il nostro sudiciume... e poi saremmo partiti senza aver mai fatto niente di positivo per la loro terra...

Mi raccontarono che un tempo esisteva la banda “degli accoltellatori" che si nascondeva dietro le Porte delle mura della città incappucciati: attendevano i forestieri per bastonarli a sangue. Così non sarebbero più tornati.

Certo non fu una bella impressione.

La gente apparentemente era gentile, educata. Vestiva bene. C'era ricchezza ma anche tanta prosopopea. Sembrava fossero tutti nobili.

A Roma si usava chiamarli "burini arricchiti" e io iniziai a vederli come dei contadini rozzi rivestiti. Loro, che tanto si scagliavano contro tutto ciò che gli stava a Sud -Forlì compreso- chiamandolo "Terronia", erano considerati a loro volta i "meridionali del Nord" da chi gli stava a settentrione!

La razza perlopiù era contadina, e con tutto il rispetto per tale ceto sociale, era il loro voler cambiare pelle che li faceva diventare antipatici, campanilisti ed incoerenti. Si vergognavano delle loro origini, invece di esserne fieri! Perciò diventavano gretti e provinciali (in senso negativo stavolta, perché io adoravo la Provincia).

Nell'entroterra, in campagna, trovai invece molte persone che nella loro semplicità erano migliori di tanti altri che mi ruotavano intorno. Gente generosa ed ospitale, e sebbene fossero dapprima diffidenti (anche lì per la mia provenienza) poi si aprivano e si affezionavano. Trovai alcune somiglianze con la Sicilia. La stessa geografia delle due regioni, confrontata con un po’ di fantasia, si somigliava pure.

Vi era la costa vicina che pullulava di meridionali, per lo più siciliani... quindi spesso si sentiva per strada l'accento siculo e qualche “minchia” anziché il dialetto romagnolo!



Come sempre, nella vita, si apprezza ciò che non si ha, e quando lo si ottiene, lo si disprezza. Così anch'io tolleravo la mia permanenza a Ravenna e speravo di giorno in giorno di andarmene. Non mettevo le radici perché sapevo anche quanto poi fosse difficile tagliarle, e così i nostri amici, un po’ per l'anti-meridionalismo latente, un po’ perché ci isolavamo noi stessi, erano tutti forestieri come noi. Pochissimi furono i romagnoli che ci invitarono a casa loro o ci degnarono della loro amicizia. Non bastava difatti conoscere la gente, salutarla per strada, lavorarci insieme oppure parlarci per lavoro. L'amicizia era qualcosa che per loro era difficile concepire nel mio modo. Rimasi sorpreso quando mi spiegarono che per loro, l'invito a cena a casa era inconsueto. Si usciva e si andava a mangiare fuori, non a casa altrui. Spesso osservavo anche tra di loro come si comportavano e rimanevo allibito della mancanza di tatto e di modi comportamentali che per la mia educazione invece erano importantissimi. Forse anche troppo.

Con Nets c’erano stati alcuni malintesi su queste cose. Non riusciva a capire la suscettibilità del meridionale ad essere maltrattato o dell’orgoglio personale di sentirsi diversi. Non capii mai perché, mentre venisse spesso da noi a cena o a pranzo, lui non avesse mai contraccambiato. Diradò le sue visite a casa nostra e rifiutò di rimanere a mangiare sempre più spesso adducendo la scusa che sua madre era “gelosa”, ed infine anche le sue "improvvisate" divennero fulminee.

Entrava, rimaneva in piedi in cucina; non accettava l'invito né di sedersi a mangiare con noi, né a passare la serata insieme. Faceva grandi sorrisi e ci osservava... tanto che a volte mi parvero prese per il culo.

Andava via con grande fretta dopo aver soddisfatto la sua curiosità (non so di cosa) oppure averci semplicemente visto e parlato per cinque minuti, spesso senza neanche salutare Valentina.

Io non capivo se “era” o “si faceva tonto” e pensai che non se ne accorgesse neanche. Conoscevo altre persone che si comportavano così e pensai che forse mi ero abituato male, io, ad essere troppo "ossequioso" e troppo "complimentoso". Ma mi dava fastidio vedere quest'indifferenza, questo comportamento quasi maleducato e mi dispiaceva che fosse lui, Nets, che consideravo un amico ed al quale avevo spalancato le porte di casa mia e del mio cuore, a comportarsi così. Era entrato nella nostra vita e lo consideravo come un fratello minore.

Ma mi deluse. Si comportò peggio degli altri.

Un giorno litigammo per colpa delle sue idee sul Meridione. Al riguardo non eravamo complementari bensì agli opposti estremi in quanto anch’io mi sentivo tale. Seppi che era venuto a casa una sera che ero a Bologna per lavoro, ed aveva intavolato una accesa discussione con due miei amici siciliani, da me ospitati in quel periodo, sulla criminalità in genere, asserendo addirittura che tutti i meridionali erano delinquenti. Ingenuamente, insisteva ad affermare le sue ragioni dicendo che dappertutto si sentiva parlare o si leggeva (ed aveva preteso ai miei amici di documentarsi) del fatto che i crimini erano legati ai meridionali o a gente di tale "provenienza". Aveva persino detto, che andando ad indagare sui criminali nati al Nord, avremmo scoperto che i cognomi erano di tale origine.

Questo aveva scatenato un vero e proprio putiferio. Anche se i miei ospiti erano persone educate ed istruite, non si erano fatti passare la mosca sotto al naso. Si erano offesi che un moccioso qualunque avesse insultato un popolo intero, quello della loro provenienza in particolare; ed avendo anche loro subìto il campanilismo a lungo a Ravenna in prima persona, non si trattennero.

Ci fu un vero e proprio bordello che i miei vicini forse ancora si ricorderanno. Tornato a casa, ignaro di tutto ciò dovetti tranquillizzarli parlandogli per due ore perché se ne volevano ritornare via. Dicevano che avevo un amico razzista e si chiedevano come si fosse permesso ad essere stato così offensivo nei loro confronti, a casa mia.

Mi trovai impacciato. Non volevo difendere nessuno, e dando torto e ragione ad entrambi peggiorai la situazione.

L'indomani, mentre pagavamo il conto dopo pranzo, presi Nets in disparte e gli chiesi di fare due passi dopo l'ufficio. Acconsentì incuriosito, e sorridendo mi disse: “a proposito... ieri abbiamo avuto una discussione!... poi ti racconto!”

“Io non vedo cosa ci sia da ridere.” gli dissi semplicemente ed aggiunsi che era proprio di quella “discussione” che gli volevo parlare. Lui mi guardò stupìto. Poi acconsentì e disse “Va bene, stasera alle sei”.



§



Passeggiammo per Largo Firenze. Ci sedemmo in Piazza della Provincia davanti alla chiesa di S. Francesco, vicini alla Tomba di Dante. Sebbene impacciato, iniziai ad affrontare il problema. Tirava un po’ di vento e faceva freddo, in quanto si preparava un acquazzone. Non sapevo come parlargliene, ma mi sentivo la rabbia addosso. Volevo bene a Nets ma mi sentivo affranto che un mio amico (se veramente amico era) mi venisse a creare dei problemi proprio con degli amici cari su di una questione così delicata. Cercai dapprima di capire cosa fosse successo e aspettai che mi desse le sue spiegazioni.

Nets mi raccontò sommariamente sull’accaduto, un po’ seccato della mia domanda. Era notevolmente alterato e nervoso del fatto che io volessi discuterne.

Mi confermò quanto aveva asserito la sera prima più che convinto di aver ragione.

“Sono tutti dei delinquenti! Sono tutti conniventi con la mafia e qui a Ravenna ne abbiamo le scatole piene...”

“Ma ti accorgi che stai dicendo delle stronzate?” dissi senza mezzi termini.

“Ma sono stati i tuoi amici che non hanno capito!” replicò Nets.

“Ma cosa dovevano capire! Tu hai offeso un popolo intero... ricordati sempre che ogni popolo ha diritto a sentirsi orgoglioso di ciò che è, della sua storia e delle sue provenienze! Se tu fossi colto come dici, se ti documentassi tu, stavolta... sapresti che in Italia non esiste una “razza” diversa a seconda delle regioni. Il nostro Paese è il risultato di un miscuglio infinito di diverse etnie; ha avuto l’influenza dei Greci, degli Arabi e dei Fenici... dei Romani e degli Etruschi. I popoli barbari calati dal nord... le dominazioni Francesi, Spagnole... Ma ti credi veramente un puro?”

“Non ho detto questo; io asserivo che la delinquenza è soprattutto colpa del Sud. Non intendevo dire che i tuoi amici fossero tali...”

“Scusa Nets, ma dire ad un siciliano o a qualsiasi persona che abbia origini meridionali una cosa simile è offenderla assieme a tutti i suoi parenti, amici! Ma ci sei mai stato giù? Hai mai conosciuto i veri meridionali, o hai solo dei preconcetti perché guardi la realtà locale e ti fossilizzi a catalogare qualche decina di persone senza approfondire? Io sono convinto che tu stia generalizzando per ignoranza, perché altrimenti saresti un razzista. Se tu mi venissi a dire che ci hai vissuto e che hai conosciuto migliaia di persone, allora potrei darti più credibilità, ma tu non ne sai niente... Non puoi fare di tutta l’erba un fascio!”

“Lo si legge quotidianamente nei giornali... guarda la cronaca nera!”

Incominciavo a spazientirmi.

“Non riesci a capirmi. Dico che tu dovresti vivere in mezzo a quella gente prima di giudicarla. Hanno i loro difetti come voi avete i vostri. Nessuno è perfetto!”

“Beh, di loro si può dire che sono perlopiù fatti male. Basta guardare come si comportano... sono gente incivile!”

Fulminai con lo sguardo Nets che si era chiuso in un guscio e si arrampicava sugli specchi. Più lo accusavo, più si difendeva fossilizzandosi in dei preconcetti che io stesso non potevo pensare credesse fermamente. Era un ragazzo che consideravo intelligente, e l’essere razzista senza vere ragioni mi dimostrava un essere rigido, immaturo... Mi rifiutavo di pensare che Nets fosse così poco elastico da considerare tutti uguali. Mi incaponivo e diventavo polemico.

“Tu mi consideri un cafone?” chiesi in atteggiamento di sfida.

“No, che centra!”

“Io sono “meridionale” in due modi: prima di tutto le mie origini... e poi ho vissuto a Roma tanto quanto basti a considerarmi tale per gente che la pensa come te. Allora?”

“Tu sei diverso. Non centrate niente voi, i tuoi amici... altrimenti non avrei neanche sprecato il mio fiato a discuterne! Sono gli altri. Se leggessi dei trattati etnici, potresti capirmi... il germe della delinquenza è diffusissimo in meridione perchè esiste ancora un gran problema sociale... tutti accettano la mafia, ci convivono e vi sono più o meno invischiati!”

“La mafia viene tollerata o accettata da molti per paura. Là fanno delle cose che qui non si permetterebbero mai di fare.”

“E cioè?”

“Al sud la mafia ha molte connivenze, è una rete molto fitta e quindi non scappi... non riesci a ribellarti. Devi accettarne la sua esistenza o ti ritrovi morto. Qui, invece, la delinquenza organizzata investe i soldi della ricettazione, della droga... ma non perché siate belli... ma perché siete una terra ricca.”

“Potrebbero andarsene altrove e lasciarci in pace! Noi non li vogliamo.”

“Potrebbero anche ammazzarvi, ma non lo fanno perchè altrimenti arriverrebbero troppe forze dell’ordine a dargli la caccia e rovinerebbero i loro affari. Ma questo comunque non ha niente a ché vedere con le tue affermazioni di ieri. Io non ti nego il diritto di pensarla come ti pare e lungi da me al dirti che non esista la micro e macrocriminalità in meridione. Se è per questo anche la romagna ne è piena. Ma mi incazzo se offendi un popolo intero sol perchè ha origini diverse dalle tue. Mi deludi nell’affermare che tutti i delinquenti hanno origini meridionali... sarebbe come dire che tu, perché sei romagnolo, sei un contadino o peggio, uno “zappaterra”! D’altronde queste sono le vostre origini! Siete un popolo di gran lavoratori ma di origine contadina e non me lo puoi negare. Io stesso ho incontrato tanti cafoni o gente gretta, rozza; ma non per questo affermo che lo siate tutti!”

“Io non sono un razzista. Sono consapevole di ciò che dico e penso e tu la devi far finita di avere la coda di paglia... questa suscettibilità tipicamente meridionale mi ha rotto le scatole!” Adesso Nets alzava la voce, era rosso in faccia e alzatosi in piedi cominciò a camminare nervosamente su e giù. “Ieri sera si erano coalizzati tutti contro di me! Non si può avere uno scambio di opinioni quando la gente è convinta di aver ragione. Io ho conosciuto pochissimi meridionali colti e intelligenti... oppure brave persone. Qui c’è la feccia e se potessi la spazzerei via in un colpo solo!”

“Ma lo vedi che stai dicendo “qui”... lo vedi che tu stesso ammetti che vi siano delle persone in gamba?”

“So quello che dico, non c’è bisogno che tu lo ripeta!” disse seccato.

“Nets, i miei amici si sono incazzati delle affermazioni che hai fatto, e a me è dispiaciuto ancor di più che sia stato tu a farle perché ti considero un amico, proprio perché da una persona elastica ed intelligente ci si aspetta che non generalizzi come stai facendo adesso. Io ritengo che tu parli così proprio perché non conosci, e quindi temi. Ciò che porta al razzismo è proprio la paura del diverso e penso che tu non te ne accorga... che tu in buona fede non capisca le affermazioni che fai...”

“Adesso mi prendi anche per deficiente?” disse ancor più incazzato.

“Senti, io non riesco a farti capire una sola cosa...” continuai con un tono severo ma calmo. “Vorrei che tu mi capissi, e una volta per tutte. Se ci tieni alla mia amicizia, piantala di trattare male i miei amici. Soprattutto a casa mia. Abbi almeno rispetto del fatto che sono persone a me care e che sei un ospite.”

Ci fu silenzio per qualche secondo. Oramai capivo che era inutile discuterne. Si era spezzato qualcosa e nessuno dei due voleva cedere.

Lui continuava a borbottare dentro di sè che ero ingiusto, che ero suscettibile, che ero imbecille a non aprire gli occhi... Io invece mi impuntavo su di una questione di principio. Avevo vissuto in una comunità ebraica in America, e nonostante avessi subìto in prima persona il loro razzismo per la sola colpa di essere un cristiano, avevo imparato a distinguere le persone perbene da quelle grette e bigotte. Desideravo capire perché in romagna ci fosse tanto astio contro i meridionali e se anche cercavo di darmene una ragione, non la accettavo. Per me era importante giudicare sempre le persone per quello che erano, al di fuori della loro religione, del colore della loro pelle...tantopiù in Italia, dove consideravo tutti uguali! Forse era proprio il fatto che avendo vissuto in altri continenti riuscivo a fare una distinzione, oppure era stato l’insegnamento dei miei genitori che mi aveva plasmato ad essere una persona coerente e di mentalità aperta. Vidi Zio Nets in una veste sbagliata e non mi piacque.

La litigata si attenuò, anche per esaurimento di energie. L'orario di cena si era terribilmente avvicinato e per Nets era divenuto impellente tornare a casa onde evitare discussioni con la madre. Era gelosa e lo aveva portato addirittura a non venire più da noi, o era lei la prima ad aizzarlo contro la nostra amicizia perché eravamo meridionali? Me lo chiesi in silenzio per evitare il prolungarsi della nostra lite e rovinare quel poco che restava ormai della nostra amicizia.

Ci lasciammo, incazzati l'uno contro l'altro.

Passarono due giorni, poi tornammo apparentemente alla normalità in quanto decisi di metterci una pietra sopra e dargli un'altra possibilità, ma del libro se ne parlò sempre meno fino a quando non se ne parlò più, quasi apposta ad evitare brutte sorprese.

Finì il suo periodo di stagionale e contemporaneamente Valentina partì con Veronica alla volta della Sicilia, per le vacanze di Natale.

In tempi recenti avevamo pianificato di vederci assiduamente in questo periodo per mettere a punto il libro; collegare i diversi capitoli scritti, studiarne i particolari. Invece Nets sparì dalla circolazione. Qualche breve telefonata i primi giorni, poi sempre più raramente, e soltanto io continuai a scrivere.



Durante quei giorni venni a sapere con somma gioia, che il vecchio coinvolto in quell'incidente mentre andavamo al mare durante l’estate non era morto. Era solo svenuto, e stava bene.



§

















3





Il primo incontro con la Sicilia era stato, molti anni prima, dall'autostrada: a Scilla.

I monti Peloritani si stagliavano maestosi all'orizzonte, immersi in una nuvola violacea. Era ormai l'ora del tramonto; la costa era tutta un luccicchìo e la punta dell'isola appariva in lontananza come un lembo di terra strappato al continente che si allontanava come un veliero in mare aperto.

Lì sul mare, dopo lo strapiombo di Scilla, tra un tunnel ed un altro, si intravedeva irto ed impetuoso lo scoglio di Cariddi: il Mostro marino che aveva tanto stuzzicato la mia fantasia da bimbo, e che ancora da adulto, quando pensavo all'Odissea, mi ricordava le peripezie di Ulisse.

Tante volte immaginavo di aver intrapreso anch’io un lungo viaggio. Molto lungo, dove non si sapeva quale fosse il lido ove approdare; dove si era in balia del vento... Del destino... Delle nostre stesse azioni. Pensavo che il mio viaggio fosse appena iniziato nonostante le mie Americhe; che fosse ancora lontano il posto dove avrei penetrato le mie radici.

Vedevo la Sicilia e pensavo a mio nonno paterno ancora bambino, assieme ai suoi fratelli, avvolti nella miseria più acuta, lavorando nelle solfatare di Centuripe portando sacchi pesantissimi sulle spalle dalle miniere, in mezzo alle montagne brulle e polverose ed arsi dal sole impietoso.

Pensavo a quei paesi sperduti in mezzo al nulla; alle mie origini; al triste suono dello scacciapensieri e sentivo dentro di me la loro insularità, l’orgoglio della loro storia. Riuscivo ad intuire lo spirito del Verga e del Pirandello. Vedevo immersa nella sua radiosa valle, il tempio di Segesta; mi accecava la bianca scogliera di Eraclea Minoa; mi assetava la sua acqua salmastra tra le labbra e mi arrostiva lentamente il suo grande sole mediterraneo. Mi apparivano come fantasmi le isole Eolie in un giorno privo di foschia e sentivo ululare il vento la notte sullo Stretto di Messina. A Capo Milazzo, tra i due Mari, il castello ergeva maestoso, illuminato da una luce arancione che lo faceva spiccare in mezzo al Borgo antico; arrivando dall'autostrada si confondeva e nascondeva dietro la raffineria, che adornata di un'infinità di luci, pareva lo skyline di New York.

Visitai Taormina con l'anfiteatro ed i colli circostanti. Sentii il profumo degli agrumeti e dei campi assolati; mi riposai la vista coi suoi ulivi arrampicati ovunque ed assaporai il miele del suo vin santo. Conobbi il freddo del suo mare terso e blu, e mi accecai di sole tra i suoi scogli.

Era una Sicilia misteriosa, quella dei miei avi.

Ma partii subito, come uno che vuole scappare al suo destino.

Non sapevo che dieci anni dopo avrei meditato di andarci a vivere.

Valentina voleva tornare alla sua terra. Si sentiva orgogliosa di appartenervi e adorava la sua gente.

Il suo nome nell’antichità, , derivava dai Sicani, popoli che avevano dominato il nord dell'isola centinaia di anni avanti Cristo assieme ai Siculi a Sud ed agli Emuli ad ovest. Frequentando mia moglie imparai a conoscere l'orgoglio della sua gente; l'asprezza della loro convivenza con la mafia, le faide, le vendette. Mi spaventava da morire pensare di andare a viverci, ma nel contempo mi sentivo attratto. Sapevo che col tempo l'avrei amata.

Capivo che il mio destino poteva essere tornare alle origini.



§







Appena solcato lo Stretto, andai a trovare il mio caro amico Nicola a Messina. La traversata era stata ineguagliabile. Quel panorama appariva veramente maestoso coi monti Peloritani da una parte e la Catena Kabilo Calabride dall'altra, e l'Aspromonte che controllava le navi in transito.

La costa si avvicinava ed io, seppur diverso nel modo di pensare e nel modo di vivere, apprezzavo il loro amore e attaccamento per quell'Isola che in qualche modo apparteneva anche a me.

Appena giunto a riva, avvertii il mio amico di venirmi a prendere allo sbarco della Caronte e lui lo fece con estrema gioia.

Mi fece sommo piacere rivederlo. Parlammo dei vecchi tempi, dei problemi con Valentina; del mio rapporto con Veronica. Mi chiese se avevo ancora il progetto di scendere in Sicilia. Sapeva che ero combattuto per mille motivi a farlo, e sperava di potermi aiutare a prendere una decisione.

“Ci ho pensato a lungo, credimi. Ma ho capito alcune cose...”

“Era ora che capissi qualcosa!” disse scherzando lui.

“Ti prego, non scherzare... mi sono deciso, ma ho tanta paura...”

“Paura di che?”

“Di trasferimi qui ... Ho paura di perdere Vale... di sbagliare tutto...”

“E perché dovresti perderla?” chiese lui cercando di rassicurarmi.

“Vedi amico mio, Valentina ha sofferto l’isolamento in una terra a lei ostile e la mancanza della famiglia troppo a lungo... a causa mia. Anelava tornare qui ma io non sono riuscito a fare carriera... Se fossi stato più in gamba mi avrebbero trasferito... Sarei riuscito a portarla via da Ravenna e lei ne sarebbe stata felice. Invece mi trovo là a marcire! Adesso ho paura che sia troppo tardi... La decisione di cambiar vita è più difficile, insidiosa... Da quando l'ho persa ho capito quanto non contasse niente il lavoro! Nicola, io tornerei apposta per ridarle ciò che è la linfa della sua vita: la sua famiglia, la sua terra, la sua visione del mondo! Ciò che io non ho saputo darle, ciò che non riuscirei mai a donarle perché ho una diversa mentalità... Tutto ciò mi rende incapace di farla felice.”

Nicola ascoltava in silenzio, a testa china.

“Recentemente mi ha confessato che se io non esistessi si sentirebbe persa. Che non concepirebbe la vita assieme a Veronica senza di me al suo fianco... che ciò che forse ancora ci lega veramente è proprio Veronica! Credo che ancora mi voglia bene ma è profondamente infelice di vivere là, e ciò non ha fatto altro che distruggere lentamente il nostro rapporto.”

Nicola era ammutolito. Annuiva di tanto in tanto seriamente. Molto seriamente. Ci voleva bene a tutti e tre e desiderava che la situazione prendesse una svolta. Ci voleva vedere felici insieme.

“Non sono pazzo, credimi. Ho riflettuto sulle mie colpe e ho capito che l'unica cosa al mondo che devo fare è proprio quella di restituirle la sicurezza che non ha. Se sta ancora con me è perché ha paura di restare sola, lontana dai suoi affetti. Portandola qui le ridarei la possibilità di rifarsi una vita.”

“Cosa intendi?”

“Maturare, prendere le proprie decisioni con l’appoggio della sua famiglia. E’ inutile continuare a vivere insieme solo perché non sa dove sbattere la testa...”

“Ma capisci che così le togli l'ultimo legame verso di te?”

“Si. Lo so”

“Ma ...” insistette lui “ così rischieresti che ti lasciasse definitivamente!”

“Se dev'essere il mio destino, che così sia. La mia speranza è quella di recuperare il suo amore dandole ciò che le manca. Forse è un modo di sdebitarmi nei suoi confronti... farle capire che la amo davvero.”

“E se diventando indipendente decide di lasciarti... magari incontra qualcuno... si rinnamora?”

“Allora era scritto. D’altronde anche a Ravenna potrebbe succedere. Così come sta andando, una fine del genere è inevitabile... mentre cambiando pagina forse... forse si rinnamorerebbe di me...”

“E se invece non funzionasse?”

Gli occhi mi si erano annebbiati dalle lacrime.

“Allora potrà vivere in pace e magari un giorno amare.”

“Sentimi, Alberico: rimani là in Romagna, dammi retta!” disse Nicola iniziando a capire la mia disperazione.

“Stai per commettere un atto folle per amore!”

Cercava in tutti i modi di dissuadermi dal gettarmi nel burrone.

“Glielo debbo. L'ho fatta soffrire. Non le ho dato l'amore che si meritava al momento giusto. Non la merito. voglio che torni ad essere felice.”

“Mi sembri tutto scemo... Mah! “ Poi si voltò di scatto e mi chiese: “E cos’altro hai capito?”

“Se lei mi lasciasse, tornerebbe sicuramente qua. E allora non vedrei più Veronica. Non voglio perderla. L'altro figlio l'ho perso per colpa di una madre snaturata ma anche della distanza. Veronica no. Non posso permettere a nessuno di togliermela.”

“E allora, anche se vi separaste, dici che così... avresti tua figlia vicina?”

“Dico proprio di si”.

“Ma tu sei proprio fuori di testa... Che sarà della tua vita se si avvera ciò che mi stai dicendo? Sarà un inferno!”

Guardai Nicola con le lacrime agli occhi. Lui ammutolì e mi abbracciò fortemente trasmettendomi assieme al suo grande affetto, tutto il suo dolore.

“Avrò te a sorreggermi” dissi finalmente, e mi lasciai andare piangendo sulla sua spalla come un bambino.

“Dai...” Disse piangendo anche lui, “In Sicilia ce ne sono una marea, di belle donne! Dovesse andare tutto male ti porterò in giro io!” E cercò di farmi sorridere.

Lo presi a braccetto e ci incamminammo verso la macchina, per andare in città, dove mi aspettavano moglie e figlia.



§







Attraversata la città, Nicola fu dolcissimo e mi dimostrò la sua amicizia e solidarietà. Ero conscio di essere fortunato ad avere amici come lui.

Ad un certo punto, parlando della situazione in generale, Nicola mi aprì gli occhi su Nets.

Dalla famosa litigata a casa mia non lo digeriva più e mi raccontò in via confidenziale che Valentina si era lamentata con sua moglie di questo mio amico. Ultimamente Nets le piombava alle ore più impensate della giornata per farle visita: alle nove del mattino; durante le ore pomeridiane... tutti orari, secondo lei, nei quali non avrebbe certamente incontrato me. La cosa la aveva infastidita e non sapeva come fare a farmelo capire. Aveva tentato di dirmelo, ma io ero così legato affettivamente al ragazzo che le avevo negato ingenuamente l’evidenza difendelo talvolta. Come avrei mai potuto pensare che ci stava provando proprio con mia moglie? Come avrei potuto mai aprire gli occhi ed accettare la realtà?

La cosa dapprima mi sorprese; infine, detto da lui mi trafisse come un fulmine a ciel sereno e mi fece infuriare.

Come aveva potuto? Così come sapeva che eravamo “separati in casa” sapeva anche che l’amavo profondamente e che tutte le mie azioni erano impostate a recuperare il suo amore!

Ma quando l'avrebbe fatto? Ma ne era sicuro? E perché comportarsi a quel modo se aveva un mucchio di ragazze intorno...

Una volta arrivato a casa affrontai il problema con Valentina che nonostante l’imbarazzo mi confermò determinati atteggiamenti del ragazzo a me oscuri.

La versione di Valentina rendeva sempre più chiaro l’atteggiamento ipocrita sull’amicizia nei miei confronti. Intanto mi fece notare: lui non mi telefonava mai. Arrivava nei momenti più impensati, e ciò allo scopo di trovarla probabilmente sola in casa. Una volta, trovandola assieme alla sua amica che spesso ospitavamo a casa nostra, avrebbe esclamato seccato che si era “piazzata” da noi. Inoltre, Valentina mi asserì che se fosse stato veramente amico mio, non mi avrebbe cercato a casa durante l’orario di lavoro...

Le evidenze erano sempre più schiaccianti ed incastravano Nets che mi si rivelava davanti come un essere perfido ed ipocrita.

Cercavo di ribadire con sempre meno convinzione che era troppo giovane e puro per potermi fare una porcata del genere... Mi pareva strano che tentasse di conquistarla ... Valentina era troppo grande per lui! E lei invece controbatteva con molta calma. Mi fece notare come quando c’ero io, lui arrivava, stava lì qualche minuto e poi andava via con una scusa qualsiasi.

“Beh? cosa c’è di male?” chiesi. Non avevo capito ancora che quando lei era da sola, restava anche un ora a parlarle!

Capii allora perché tanta “amicizia”; il perché delle “improvvisate” e quell'accanimento a far funzionare il nostro rapporto!

Il fesso ero stato io, a crederci, e dargli la possibilità di entrare nell’ intimo di casa mia quando voleva... con la scusa di “carpire” i pensieri di Valentina e favorire il risanamento del nostro rapporto” !

Balle! Balle!

Tutte Balle!



§





Dopo una settimana tornai da solo a Ravenna. Durante il viaggio meditai a lungo sulla faccenda e le ore passarono in un baleno. Non sapevo più che pesci prendere... Ma sapevo ciò che avrei voluto dire...

Poi decisi: avrei affrontato Nets e lo avrei messo alla prova. Nel nome dell'amicizia e del buon rapporto che volevo credere esistesse ancora, gli avrei dato una possibilità di giustificare il suo comportamento. Ma guai se non era più che convincente! Se mi aveva preso in giro... Preso in giro la mia amicizia!

Non riuscivo a capacitarmi del perché l’avesse fatto. Credevo ancora nella sua amicizia e mi distruggeva il pensiero di essere stato tradito in questo sentimento, oltre ad essere stato raggirato da un ventenne.

Perché? Cosa era successo a quel ragazzo dalla pelle unta e brufolosa? Era forse stata colpa mia che lo avevo fatto partecipe del mio segreto? Aveva forse pensato che ai separati in casa si può rubare tutto? Forse era stato il mio comportamento apparentemente menefreghista e moderno?

Mi sentivo una merda ed ero combattuto su come affrontare l’argomento. Ma poi pensavo al tradimento... e mi imbestialivo. D’accordo, pensavo. Ammettendo pure che avesse malinterpretato tutti i miei atteggiamenti (anche se ne incominciavo a dubitare), perché non dirmelo sinceramente? “Mi sono innamorato di tua moglie”. Perché non dirmi che la andava a trovare?

Il suo atteggiamento era stato subdolo. Era andato alle ore più impensate enza dirmi niente, e questo dimostrava la sua mala fede.

Per me era inconcepibile tradire un amico. Soprattutto innamorarmi di sua moglie, della sua donna... Non riuscivo a capire se Nets si era preso una cotta per la mia o se era insito in lui il germe dell’infedeltà. Era cresciuto assieme ai preti... Chissà che idee strane e morbose si erano insediate nella sua giovane mente in nome della castità, della purezza... Ma pensai che si fosse scatenata in lui la folle paura di crescere. Nets viveva col sogno irrealizzabile di trovare una persona matura che gli insegnasse l’amore. Con Paola era rimasto in un limbo dal quale non ne usciva più in quanto stare insieme a lei, sarebbe significato affrontare il problema sessuale (peccato d’impurità!); contrariamente sarebbe stato non crescere; non maturare, non diventare uomo! Allora cercava amori impossibili, che non lo costringessero a superare tali difficoltà... persone irraggiungibili... persone mature...

Ma sì! Valentina!

Si era sicuramente liberato dalla pesantezza delle sue fantasie giovanili grazie alla enfatuazione presa per lei. Ecco perché era tanto grato! Aveva trovato l’irraggiungibile... Ma tentava in tutti i modi di approfittare della situazione... chissà... Forse tentava di crescere a mio danno.

Non riuscii a dormire tranquillo quella notte. L’indomani l’avrei visto, come solitamente facevamo durante i giorni feriali a pranzo con gli altri colleghi.





§





Il giorno dopo gli dissi che l’avrei chiamato in serata. A pranzo andò tutto liscio. Feci finta di niente e lo evitai il più possibile. Le ore pomeridiane furono interminabili ma infine arrivò la sera.

Lo chiamai al telefono per fissare un incontro e parlare.

Forse Nets aveva intuito qualcosa attraverso la mia freddezza poiché mi inventò che aveva sonno e stava andando a dormire alle otto di sera. Mi chiese di cosa volessi parlargli e pretese una spiegazione al telefono negandomi l’appuntamento. Io insistetti. Lui non demorse. La sua voce tremolante e squillante smascherò uno stato di inquietudine e nervosismo che mi convinse sulla sua malafede . Affrontai il discorso con tono acceso.

Alle pesanti accuse non seguì alcuna risposta. Non mi diede una spiegazione plausibile e si difese dicendomi soltanto che aveva la coscienza “limpida e trasparente”. Cercò di sviare il discorso e allora capii che Nicola e Valentina, purtroppo, ci avevano visto giusto. Constatai con amarezza che tutte le sue bugie erano vere; quelle luminose prediche religiose e quei sentimenti di amicizia conclamati, quelle sue ottime intenzioni di “ricucire lo strappo” fra me e Valentina... Quella nobile causa alla quale io avevo creduto e dato via libera facendolo entrare nella mia vita.

Forse, dietro al “prete mancato” si celava un diavolo che tentava di rubarmi ciò che adoravo, così come aveva pur tentato di fare nei confronti dell'altro amico.

Lo insultai. Gli dissi che a casa mia non ci doveva più tornare; gli urlai che non mi avrebbe più fatto passare per cornuto; che era un falso... un ipocrita. Che non aveva argomentazioni perché era in mala fede e Dio l'avrebbe punito.

Ma omisi di distruggere il suo sogno: quello di scrivere assieme il libro, perché dicendoglielo, avrei distrutto anche il mio .

Mi sentii così defraudato e stupido che mi accasciai sul divano e chiusi gli occhi. Tenevo ancora il telefono in mano. Non potevo essere stato così idiota e cieco a non capire, a non vedere! Avevo rischiato di perdere Valentina... forse l'avrei persa comunque, e per sua spontanea scelta... Ma Nets mi aveva ingannato. Aveva infangato il sacro sentimento dell'amicizia, che si manifesta sempre in maniera saggia, pura e disinteressata.

Mi misi a piangere per la rabbia. Mi sentivo terribilmente ingenuo, bambino... Aver creduto all'amicizia e aver creduto di poter giocare all'adulto che aveva il fratellino minore a cui trasferire la sua saggezza!

Avevo avuto ciò che mi meritavo. La giusta punizione alla mia presunzione, e adesso capivo per l'ennesima volta, che non dovevo fidarmi di nessuno.



Finì così, quell’amicizia. O quello che ritenevo tale.





Oggi, nei miei pensieri, lui torna qualche volta a ricordarmi che dobbiamo tenerci ben strette le cose a cui teniamo.

Penso a Valentina. Penso a ciò che sarebbe stato senza di lei e mi ritengo fortunato che Nets, lo "Zio Nets", fosse troppo giovane ed inesperto per rubarmela. Oh! come avrei rimpianto quella "amicizia".

Il giovane leone aveva affilato le unghie ed allenato i muscoli per spodestare dal trono quello maturo e malandato! Grazie a Dio non vi era riuscito perché malefico era il suo scopo.



Mi rimangono di lui pochi ricordi: in cuore, l'amarezza; in casa, un brano su due palline che rotolano verso il cortile : le “Sfere della Lunga Vita”.

Dovevano simboleggiare la nostra diversità complementare, la nostra amicizia.





Nets si è iscritto all'Università.

Forse avrà ancora i brufoli.

Non l’ho mai più incontrato.

































































































E P I L O G O















"E Caronte lo caricò sulla sua Nave per attraversare le acque degli Inferi... Forse, egli stava fuggendo e si accingeva a varcare l'altra costa del fiume per l'ennesima volta, seguendo il suo destino. Una dannazione infinita che avrebbe ripetuto per l'eternità: Migrare per terre diverse e lontane, ricominciando da capo.

Il “Forestiero” si affacciò sulla poppa della nave e si sentì pieno di energia e di speranza. Il vento gli accarezzò i capelli con le mani vellutate e profumate di buganvillee e fiori d'arancio, dandogli una sensazione di libertà e di benessere... nonché di leggerezza. Gli mormorò all'orecchio che un giorno avrebbe rubato la sua anima e l'avrebbe fatta fluttuare con lui ovunque, sui mari e pei monti, come le foglie caduche d'autunno.



L'avventura ricominciava .

E Veronica e Valentina erano là ad aspettarlo.

Loro, la sua Vita, la sua Speranza.”





















Finito di scrivere l'11 dicembre 1995.